Cosa dobbiamo aspettarci da COP28?
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Cosa dobbiamo aspettarci da COP28?

SOTTO IL SOLE DEGLI EMIRATI SI FARANNO PASSI AVANTI DECISIVI NELLA LOTTA AL CAMBIAMENTO CLIMATICO O SI TRATTERA' DI UNA TAPPA DI TRANSIZIONE? LO ABBIAMO CHIESTO AI PROF VALENTINA BOSETTI, EDOARDO CROCI E STEFANO POGUTZ E AGLI ALUMNI PIETRO BERTAZZI, CRISTIANO RIZZI E RAGY SARO. CIO' CHE E' CERTO E' CHE I MOTIVI DI DISCUSSIONE SARANNO MOLTEPLICI A DUBAI: DALLA QUESTIONE DEL FONDO LOSS AND DAMAGE AL PROCESSO DI GLOBAL STOCKTAKE

A fine mese, il 30 novembre, partirà ufficialmente negli Emirati Arabi Uniti la COP28 dell’ONU, il consesso internazionale più importante sui temi del cambiamento climatico. Il momento in cui leader di tutto il mondo (quest’anno sarà presente anche il Papa) ed esperti di tutti i settori si riuniscono per discutere dello stato di avanzamento delle politiche sul clima. E, dopo la COP25 del 2015 e il relativo Accordo di Parigi, anche per ricalibrare o stabilire gli ulteriori passi in funzione dell’obiettivo principale emerso dall’Accordo: fare il possibile per contenere l’aumento della temperatura globale al di sotto dei 2 gradi (entro fine secolo) rispetto ai livelli preindustriali, puntando a un aumento massimo di 1,5 gradi. Un obiettivo complesso e ambizioso, ma necessario, secondo gli esperti, per salvare il pianeta. Ma se la comunità scientifica è concorde nel sottolineare gli effetti drammatici del cambiamento climatico, non altrettanto ferma è stata, negli anni, la volontà politica di metterne in pratica le indicazioni. Negli Emirati le questioni sul tavolo saranno molteplici, sebbene molti degli esperti dubitino che questa COP possa rappresentare una tappa decisiva del percorso.

Cosa sono le COP
COP non è altro che l’acronimo di Conferenza delle parti (Conference of Parties), ossia la riunione annuale dei paesi, oggi 198, che hanno ratificato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC). La Convenzione, che è considerata il più importante trattato internazionale sui temi ambientali, fu firmata nel 1992 a Rio De Janeiro, durante quello che rimase noto come Summit della Terra. Puntava alla riduzione delle emissioni di gas serra ed è stata integrata da protocolli successivi per porre impegni quantitativi precisi, il più noto dei quali è il Protocollo di Kyoto del 1997. Le Conferenze delle parti si sono tenute per la prima volta a Berlino nel 1995 (COP1).

Cosa ci si aspetta da Dubai
“Di sicuro non ci si aspetta un rafforzamento sugli obiettivi di decarbonizzazione. Probabilmente si tratterà di una COP di transizione”, spiega Edoardo Croci, professor of practice in Bocconi e direttore del Sustainable Urban Regeneration Lab dell’Università. “Non sarà la COP dei risultati eclatanti e sebbene gli attuali NDCs, i Nationally Determined Contributions (gli impegni di riduzione delle emissioni fatte dai paesi aderenti all’accordo di Parigi), non siano ancora sufficienti a farci rientrare in quanto stabilito sull’aumento delle temperature, è previsto che il prossimo rafforzamento di queste misure avvenga nel 2025”. Quello che dobbiamo aspettarci, invece, “ed è un punto molto importante”, sottolinea Croci, “è che siano finalmente definite tutte le regole per far ripartire a livello globale il mercato dei diritti di emissione dei gas serra, che dopo Kyoto si è diffuso solo in alcune aree, come ad esempio in Europa”. Cosa vuol dire? Partendo dal presupposto che la  collaborazione tra paesi riduce il costo di abbattimento delle emissioni e che gli strumenti economici si sono dimostrati i più efficienti nel promuovere la riduzione delle emissioni, “si tratterebbe di dar vita a un mercato globale in cui i paesi che riescono a superare i propri NDCs possono vendere ‘l’eccesso’ dei propri risultati attraverso strumenti chiamati ITMOs (Internationally Transferred Mitigation Outcomes) ad altri paesi, di modo tale che questi ultimi possano farli valere per rientrare nei propri NDCs”.

La questione del Fondo Loss and Damage
Altra questione caldissima nel deserto degli Emirates è quella legata ai finanziamenti da stanziare per aiutare i paesi più vulnerabili a sopportare gli effetti del cambiamento climatico. Una parte importante dell’accordo di Parigi del 2015 è l’accordo finanziario che fissa un obiettivo di 100 miliardi di dollari all’anno fino al 2025 come contributo dei paesi sviluppati verso quelli in via di sviluppo, per favorire la loro transizione ecologica. Un importo che non è ancora stato raggiunto e che finisce per rappresentare un terreno di scontro in tutte le COP. Più di recente è stato creato il Fondo Loss and Damage, formalmente stabilito a COP27 (Sharm-El Sheik) ma non ancora reso operativo. Il fondo, pur rispondendo a finalità circoscritte, rappresenta un passo in avanti nella cooperazione internazionale. “È stato pensato per aiutare i paesi in via di sviluppo a far fronte alle inevitabili conseguenze dei cambiamenti climatici, conseguenze che vanno oltre le possibilità di adattamento”, spiega Valentina Bosetti, full professor di climate change economics alla Bocconi. “Ci sono costi che i paesi più vulnerabili stanno già pagando e si tratta di paesi che non hanno avuto parte nella generazione del problema”. Sul Fondo Loss and Damage, sottolinea Bosetti, “tutto il terreno di scontro è su chi deve mettere i soldi e su chi deve esserne destinatario. I paesi sviluppati, per esempio, spingono perché tra chi paga figuri anche la Cina, che invece è recalcitrante. Le discussioni vertono anche su chi dovrebbe gestire il fondo, la Banca Mondiale o una nuova struttura indipendente. I paesi in via di sviluppo vedono questa discussione come prioritaria e un eventuale fallimento su questo tema potrebbe portare in stallo molti altri”.

A che punto è il mondo: il Global Stocktake
A COP28 si concluderà anche il processo di Global Stocktake, ossia la revisione degli obiettivi raggiunti da ogni paese aderente (da ricordare che l’Unione europea si presenta come attore unico). Da questo punto di vista, ciò che emerge in vista della COP è che è necessaria un’ulteriore accelerazione negli sforzi. In questo quadro, tuttavia, due elementi sono da sottolineare: “Per quanto riguarda l’Europa, è da sottolineare l’impegno che emerge da misure come Fit for 55, che è l’obiettivo di ridurre le emissioni nette del 55% al 2030”, spiega Bosetti. “Per quanto riguarda gli USA, la recente introduzione dell’Inflation Reduction Act, ossia la più grande misura di politica industriale degli ultimi anni che, sostenendo le aziende americane che producono tecnologie verdi, dovrebbe produrre un impatto positivo sull’ambiente” (sull’IRA vedi anche l’analisi del direttore dell’Institute for European Policymaking @ Bocconi University, Daniel Gros, e coautori, qui). Allungando lo sguardo agli obiettivi a lungo termine stabiliti a Parigi, invece, “è possibile che non riusciremo a contenere l’aumento a 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali”, aggiunge l’esperta. “Ma questo non significa mancare l’obiettivo di Parigi che mira a contenere l'aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2 gradi e di perseguire sforzi per limitare l'aumento della temperatura a 1,5 gradi. Il punto è questo: ogni decimo di grado in più che concediamo è un aumento del danno all’ambiente. È questo il motivo per cui non dobbiamo cedere e diminuire il nostro impegno”.

Il capitale naturale e la posidonia
Tornando agli strumenti finanziari, se COP28 può essere l’occasione per riattivare un mercato globale dei crediti per la decarbonizzazione, secondo Edoardo Croci può essere anche l’occasione per definire meccanismi di credito negoziabili dedicati alla biodiversità (la Bocconi insieme a EAERE e UCLG è presente con un side event a COP28 proprio su questo tema). “L’idea”, spiega Croci, “è andare oltre i crediti di carbonio nel settore forestale e arrivare a crediti che tutelino il capitale naturale e la biodiversità. Al momento non esistono strumenti economici di questo tipo, come invece esistono per il clima con gli ITMOs”.
Chiamate in causa nella lotta al cambiamento climatico sono quindi anche le soluzioni ‘nature based’: “Uno  degli elementi emersi negli ultimi anni è che ormai pensare soltanto a soluzioni tecnologiche non è più sufficiente per risolvere il problema”, spiega Stefano Pogutz, professor of practice di corporate sustainability di SDA Bocconi School of Management. “Soluzioni a base naturale sono la forestazione, ma anche la tutela per esempio della posidonia, la vegetazione marina che è fondamentale per la produzione di ossigeno e l’assorbimento di Co2. Anche l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’organismo delle Nazioni Unite incaricato del supporto scientifico, ha sottolineato quanto sia necessario introdurre anche questo tipo di soluzioni e quanto, di conseguenza, sia importante introdurre strumenti finanziari in grado di tutelarli”.

La COP, la politica, la guerra
Al di là di cosa si otterrà da questa COP28, però, una cosa è certa, come sottolinea ancora Pogutz: “La scienza è stata chiara nello stabilire la relazione tra la pressione antropica sull’ambiente e il cambiamento climatico. Sono state anche mappate le possibili soluzioni e creata una roadmap. Tuttavia, nell’ultimo periodo la pandemia prima e la guerra poi hanno spostato l’attenzione della politica verso il tema della sicurezza e la crisi climatica è passata in secondo piano”. Non solo, “la finanza ha riportato capitali sulle energie tradizionali (oil e gas) che con il costo dell’energia aumentato hanno generato utili notevoli. Se a questo si aggiunge che le rinnovabili necessitano di miliardi di investimenti, questo non aiuta la riflessione sull’ambiente da parte del mondo politico”. Però “Se vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno”, chiosa Pogutz, “le COP sono avanzate a pochi passi lunghi, come Parigi, intervallati da tanti passi brevi, che però sono stati fondamentali per implementare le politiche. Potrebbe essere anche il caso di COP28”.

intervista all'alumnus Pietro Albertazziintervista all'alumnus Ray Sarointervista all'alumnus Cristiano Rizzi

di Andrea Celauro

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