Il giornale ha cambiato formato
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Il giornale ha cambiato formato

DIMENTICATE TABLOID E MAGAZINE, MA ANCHE LA LETTURA SU TABLET E IPHONE DELLE DIGITAL EDITION. IL FUTURO GUARDA AL MONDO DELLA MUSICA E A PIATTAFORME QUALI SPOTIFY E ITUNES

di Simone Autera, docente presso il Dipartimento di management e tecnologia

L’editoria periodica, non è cosa nuova, sta attraversando da ormai molti anni una profonda crisi del suo modello di business tradizionale.
Sul fronte dei ricavi pubblicitari si è registrata una radicale diminuzione del fatturato su carta stampata, non compensata dall’aumento dei ricavi da pubblicità digitale. Negli Stati Uniti, per esempio, il fatturato da pubblicità su carta è passato da 45 miliardi di dollari nel 2003 a 17,3 nel 2013, mentre quello da pubblicità digitale da 1,2 a 3,4 miliardi di dollari (dati Newspapers Association of America).
Sul fronte dei ricavi da circolazione, la carta stampata ha visto calare il suo fatturato o mantenersi più o meno stabile, grazie, in questo caso, all’aumento dei prezzi di copertina e di abbonamento che ha compensato la diminuzione del numero di lettori paganti.
Su internet, contemporaneamente, la maggior parte degli editori non ha ancora trovato la quadra per portare il lettore a pagare per quel che legge.
Nel tentativo di cercare nuove soluzioni a quest’ultimo problema, in molti hanno suggerito di guardare ai modelli di riferimento nel settore discografico, iTunes e Spotify in primis.

L’idea di fatto è proporre al lettore o di pagare di volta in volta solo ciò che legge (pay-per-article o pay as you go) o di abbonarsi con modalità all you can read ad un ampio catalogo di contenuti provenienti da editori diversi.
Alcuni esperimenti in questa direzione sono già online. Nel 2013 in Olanda è nata Blendle, una piattaforma che mette a disposizione gli articoli di numerosi editori locali e internazionali: gli utenti possono scegliere che cosa leggere e pagano da 0,09 a 1,99 euro a seconda del tipo di contenuto; gli editori si vedono restituito il 70% del ricavato. L’iniziativa ha riscosso buon successo e si è espansa dapprima in Germania e poi negli Stati Uniti, ricevendo 3 milioni di euro di investimenti da New York Times e Axel Springer nel 2014.
Tra le iniziative multi-editore con modelli di offerta all you can read figurano Texture e Edicola Italiana. Quest’ultima è stata lanciata nel gennaio 2015 come piattaforma online per la consultazione di oltre 90 testate tra quotidiani e riviste dell’omonimo consorzio dei maggiori editori italiani (Rcs MediaGroup, Gruppo 24 Ore, Gruppo Editoriale L’Espresso, La Stampa-Itedi, Caltagirone Editore e il Gruppo Mondadori). Texture è una applicazione frutto dell’accordo di sei dei più grandi editori nordamericani (Hearst, Condé Nast, Meredith, News Corp., Time Inc. e Canada’s Rogers Media) che mette a disposizione dei lettori un vastissimo catalogo di magazine, consultabili al costo di 7,92 dollari al mese. 
Pur non avendo dati pubblici sulla performance di queste iniziative, si possono fare alcune riflessioni in merito alle condizioni di efficacia di questi modelli.
Il modello Blendle/iTunes si configura come una soluzione interessante per il giornalismo di qualità (reportage investigativi, analisi e interviste approfondite). Può configurarsi come una buona vetrina per gli editori minori che non hanno un brand forte e che hanno così la possibilità di vedere valorizzata la propria produzione.

Il modello Spotify funziona principalmente per i grandi editori che possono contare su un ampio catalogo e vedersi restituita pertanto una elevata percentuale del prezzo d’abbonamento – spesso il ricavo si spartisce sulla base delle visualizzazioni conseguite da ogni testata. Per un lettore il valore dell’offerta deriva da: l’accesso tramite un unico account, l’ampiezza del catalogo, un’interfaccia con contenuti disegnati nativamente per una piattaforma mobile e la possibilità di leggere ogni articolo come un contenuto a sé stante.
Così come per il settore discografico, il fenomeno (storico) che sottostà a queste configurazioni di offerta è l’atomizzazione dei contenuti. Un fenomeno molto serio se pensiamo che il principale lavoro degli editori è proprio occuparsi del packaging dei contenuti. Allo stesso tempo, però, è positivo che queste iniziative provengano dagli stessi editori, attutendo il rischio che parti terze guadagnino sulla loro produzione, come già avviene per la pubblicità. Google, Facebook, Snapchat, Apple & co. ne sanno qualcosa.
 

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