OPINIONI |

La moda e' globale. Da sempre

IL NERO? LO HA LANCIATO FILIPPO IL BELLO

di Francesca Polese, assistant professor di storia economica alla Bocconi

La moda è da sempre un fenomeno globale. In Occidente, gli storici ne collocano la nascita nella seconda metà del XIV secolo, quando il risveglio dei commerci su lunga distanza e una congiuntura economica positiva ruppero l’immobilità che caratterizzava l’Europa. Le principali innovazioni di questo periodo nel campo dell’abbigliamento furono la distinzione fra abito maschile e femminile, con il passaggio dall’abito drappeggiato all’abito cucito grazie a nuove tecniche di confezionamento e all’uso dei bottoni. Iniziò così una vera e propria gara a sfoggiare le vesti più lussuose e stravaganti che coinvolse gli strati sociali superiori di tutta Europa. Il principale centro d’irradiazione della moda divenne la corte, che si rivelò capace di influenzare lo stile ben oltre i confini del proprio regno. Famoso è il caso di Filippo il Buono, duca di Borgogna, che all’inizio del Quattrocento rese il nero il colore più in voga fra l’aristocrazia dell’intero continente. Sicuramente, in un mondo che ancora doveva sperimentare la prima globalizzazione (con i viaggi di scoperta della fine di quel secolo), questa moda del nero può essere letta come un primordiale esempio di globalizzazione dei gusti. Ma già allora, la moda presentava un altro aspetto che la rendeva capace di superare ampiamente i confini locali. I materiali di abiti e accessori erano spesso prodotti molto lontano. Alcuni centri della penisola italiana proprio in questi secoli raggiunsero livelli di eccellenza nella produzione di panni di lana (Prato), velluti e broccati (Venezia), seta (Como).

Alla fine del XVII secolo vi fu un cambiamento in questa geografia della moda: con Luigi XIV Parigi divenne ‘la’ moda, dettando legge in questo campo in tutto l’Occidente. Persino quell’epocale trasformazione che fu la Rivoluzione industriale non riuscì a scalfire il primato della capitale francese in termini di moda. Anzi, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e per un secolo, perché un capo o un accessorio fosse considerato di moda doveva provenire dalla Ville Lumière (sebbene la prima maison di haute couture sia stata inaugurata a Parigi da un britannico, Charles Frederick Worth) e per essere considerati veri couturiers era necessario stabilirsi a Parigi (come la romana Elsa Schiaparelli, fra le due guerre mondiali la principale antagonista di Coco Chanel). Dalla capitale francese gli abiti di Worth e Doucet, di Poiret e Paquin, di Chanel, Schiaparelli e Vionnet arricchivano i guardaroba delle donne dell’alta società del mondo intero. Per conquistare i mercati globali, l’alta moda parigina poté contare anche sulle nuove tecnologie (queste sì frutto della Rivoluzione industriale): gli abiti non viaggiavano più solo attraverso i racconti degli ambasciatori di ritorno da corte, o su bambole portate dai sarti a domicilio alla propria ricca clientela, ma sempre più importanti divennero prima le sfilate di moda, poi la stampa di settore (la prima edizione di Vogue esce negli Stati Uniti a fine ’800), il cinema (nel 1931 Chanel è assunta da Samuel Goldwyn per disegnare gli abiti di alcuni film) e infine la televisione.
 
Il monopolio parigino si infrange solo all’indomani della seconda guerra mondiale. I cambiamenti economici, sociali, politici e culturali fecero sì che altre città riuscissero a imporsi come capitali mondiali della moda. È il caso di Londra, che dalla metà degli anni ’50, con una nuova generazione di stilisti capeggiati da Mary Quant, emerse come capitale della moda giovanile; oppure di New York che fra i ’70 e gli ’80 divenne sinonimo di sportswear e casual (Calvin Klein, Donna Karan e Ralph Lauren); infine, della moda italiana la quale, alla ribalta internazionale dagli anni ’50, si è andata identificando con Milano, divenuta per il mondo intero, grazie a nomi come Giorgio Armani, la patria del prêt-à-porter e della moda boutique di lusso.
Fra moda e globalizzazione c’è dunque un rapporto complesso e ambiguo: da un lato, un bene è di moda perché incorpora qualità e attributi unici legati al luogo di provenienza (Parigi nell’800, Londra negli anni ’60, Milano negli ’80), ma allo stesso tempo il mercato a cui si rivolge è, da sempre, globale. Così come internazionale è la filiera produttiva: se Poiret all’inizio del ’900 si serviva di tessuti italiani per le sue robes, gli abiti del Made in Italy oggi sono in larga misura confezionati all’estero.

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