OPINIONI |

L’apologo della ciliegia e dell’arancia

GLI EQUIVOCI CHE SI NASCONDONO DIETRO IL LOCALISMO E LE ETICHETTE BIOLOGICHE

di Enzo Baglieri, direttore della Unit produzione e tecnologia della Sda Bocconi

Il timore di patologie di origine animale, un maggiore discernimento nell’acquisto di alimentari e il consolidamento di visioni identitarie e localiste hanno fatto maturare negli ultimi anni una forte sensibilità della domanda verso forme di consumo ‘sostenibili’. Ne sono nate iniziative tese a privilegiare i prodotti locali o a ‘km zero’, come quelle avviate in Veneto sotto l’egida della Coldiretti, che hanno favorito la nascita di una rete locale a km zero e che inducono a pensare alla creazione di una apposita etichetta di ‘sostenibilità’. Nel 2008 queste iniziative hanno favorito l’approvazione della legge regionale 7/2008, che prevede la presenza di alimenti legati al territorio, nelle mense di asili nido, scuole, ospedali, residenze per anziani e nei menù della ristorazione. Non si devono però confondere prodotti ‘locali’ e ‘legati al territorio’ con ‘sostenibili’.

Negli ultimi 50 anni i metodi di coltura e allevamento tradizionali sono stati trascurati a vantaggio di una forte meccanizzazione dei processi produttivi, dell’utilizzo di sostanze di sintesi a protezione delle colture, della selezione delle varietà per la robustezza della coltura, l’aspetto estetico e la ‘trasportabilità’. Le prassi sostenibili dei nostri avi (come la combinazione tra allevamento animale e colture praticate per facilitare la chiusura del ciclo dei rifiuti di entrambe le produzioni, e l’adozione di sostanze naturali a protezione della coltura) non si adeguano con la richiesta di produttività che è seguita allo sviluppo dei grandi sistemi distributivi organizzati. Questi attori hanno favorito una domanda sensibile alla varietà e alla de-stagionalizzazione del consumo. La soddisfazione della domanda si è tradotta però in una sostanziale globalizzazione della fornitura agro-alimentare e in una crescita del potere contrattuale della grande distribuzione.
 
La citata recente sensibilità al consumo “sostenibile” si è implicitamente tradotta nel recupero di modelli produttivi diversi e del concetto di identità locale. Non esiste nessuna garanzia, tuttavia, che il prodotto locale sia per definizione sostenibile, poiché sono ormai rare le forme di produzione che non fanno ricorso a soluzioni meccanizzate e all’impiego di materiali ausiliari di sintesi. Anche il cosiddetto “biologico” non è sostenibile, se non si associa a catene distributive molto corte e all’impiego di soluzioni logistiche più sostenibili. La nascita di forme distributive quali i farmer market, i farm shop o la consegna a domicilio continueranno a confondere quindi il concetto di territorialità e di protezione del patrimonio locale con quello di sostenibilità, finché non esisterà una formula oggettiva di certificazione della sostenibilità dei processi e delle tecnologie di coltura, allevamento, produzione e trasporto.
 
In definitiva, quindi, l’accento non deve essere posto sulla questione dell’identità territoriale del prodotto agro-alimentare, poiché è indubbio che questo debba essere preservato e valorizzato. Più rilevante sarebbe invece progettare sistemi di regole e di controlli che alla filiera corta e al km zero associno gli stessi requisiti di sicurezza e di qualità intrinseca oggi garantiti dal controllo distribuito lungo le supply chain più complesse, anche se ovviamente a spese delle sensazioni percettive e della freschezza del prodotto.
In ultima analisi, tuttavia, bisognerebbe riflettere sui modelli di consumo: finché il consumatore continuerà a voler comprare ciliegie in inverno e arance in estate sarà impossibile progettare sistemi di produzione, trasporto e distribuzione che siano anche implicitamente sostenibili.

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