Perche' la ricchezza non sconfigge la poverta'?
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Perche' la ricchezza non sconfigge la poverta'?

IN MANIERA SIMILE A QUANTO E' AVVENUTO IN EPOCA MODERNA, SI ASSISTE AD UN ALLARGAMENTO DELLA FORBICE TRA GLI ONEPERCENTERS E GLI STRATI SOCIALI MENO ABBIENTI. MA SE LA DISUGUAGLIANZA E' IL RIFLESSO DELL'ORGANIZZAZIONE DELLA SOCIETA', C'E' DA CHIEDERSI IN QUALE DIREZIONE STIAMO ANDANDO

di Guido Alfani, ordinario presso il Dipartimento di scienze sociali e politiche

Le società ricche di oggi sono, dal punto di vista della disponibilità di risorse materiali, più ricche rispetto a qualsiasi società del passato. Purtroppo, però, un’affermazione di questo genere ha senso solo se riferita alla media della popolazione (ovvero a misure quali il PIL pro-capite). Se guardiamo alle più recenti statistiche relative alla diffusione della povertà nei paesi OCSE, quasi ovunque nel 2022 il tasso di povertà era superiore al 10%. Gli Stati Uniti, uno dei Paesi più ricchi del club OCSE, spiccavano con un tasso di povertà pari al 18%.
Com’è possibile che grande ricchezza e diffusa povertà convivano, negli Stati Uniti come altrove? La riposta risiede nella distribuzione del reddito e della ricchezza, anzi, va subito chiarito che il tasso di povertà è intrinsecamente un concetto distributivo, visto che corrisponde alla quota di popolazione con un reddito inferiore alla metà del reddito mediano. Questa sua caratteristica può talvolta portare a risultati paradossali, ma nel caso delle società contemporanee non vi sono dubbi circa la corretta interpretazione di questo indicatore visto che anche altre misure, quali la povertà assoluta, confermano la persistenza della povertà nelle società ricche. Negli ultimi anni, anzi, in molti Paesi la situazione è peggiorata, per esempio in Italia dove l’ISTAT ha stimato che nel 2022 l’8,3% delle famiglie si trovava in una condizione di povertà assoluta (ovvero non percepiva un reddito sufficiente ad acquistare un paniere accettabile di beni e servizi), in netta crescita rispetto al 7,7% del 2021 (il tasso di povertà relativa rimaneva stabile, attorno all’11%). Per contro, nello stesso periodo, la quota di reddito dei più ricchi cresceva nella gran parte dei Paesi OCSE, o al più rimaneva stabile.

La combinazione di un aumento nella quota di reddito e/o ricchezza dei più affluenti con un aumento della povertà (assoluta e/o relativa) non è affatto rara nella storia dell’Occidente. Durante l’età moderna, anzi, tutto indica che questa sia stata sostanzialmente la norma, così che alla vigilia della Rivoluzione Francese del 1789 in molte aree dell’Europa continentale una parte consistente della popolazione non sarebbe potuta sopravvivere senza ricevere un sistematico soccorso, sotto forma di carità pubblica o privata, mentre una porzione ancora più grande della popolazione rischiava di scivolare in una condizione di povertà assoluta ad ogni crisi, trovandosi quindi ad affrontare una situazione di costante incertezza dalle pesanti conseguenze umane e psicologiche. Allo stesso tempo, la disuguaglianza di reddito e ricchezza raggiungeva livelli senza precedenti, senza accennare ad arrestarsi.
Un altro aspetto da sottolineare è che durante l’età moderna tali tendenze si riscontrano sia nelle regioni dell’Europa continentale (soprattutto al Nord) che stavano godendo di una fase di crescita economica relativamente sostenuta, sia nelle regioni (soprattutto al Sud) che invece dovettero fare i conti con lunghe fasi di stagnazione. In altre parole, l’evidenza storica non suggerisce affatto che il miglioramento delle condizioni medie di una popolazione – ovvero un aumento del PIL pro-capite – porti automaticamente a una riduzione della povertà. Allo stesso modo, la storia non suggerisce affatto che l’aumento delle disuguaglianze sia un semplice effetto collaterale della crescita economica.

Il punto, dunque, è che in ogni società umana, oggi come nel passato, la distribuzione delle risorse economiche riflette in primo luogo il modo in cui la società è organizzata. Sul finire dell’età moderna, l’accentuata polarizzazione tra moltissimi poveri e una ristretta élite economica capace di concentrare nelle proprie mani una quota molto ampia della ricchezza (gli one percenters dell’epoca detenevano probabilmente più della metà della ricchezza complessiva) corrispondeva a una società strutturalmente diseguale, distinta formalmente in ordini con diversi diritti e status giuridico, e in cui gli strati più umili dipendevano sostanzialmente dalla benevolenza dei più ricchi. Si discute se la Rivoluzione Francese sia stata innescata anche dalla crescente disuguaglianza economica, ma quello che è certo è che fu, sin da subito, una rivolta contro l’ordine sociale dell’epoca. L’égalité rivendicata dai rivoluzionari era un’eguaglianza di diritti, non economica. Cionondimeno, nella situazione che oggi caratterizza molti dei Paesi più ricchi del mondo, con una diffusa, persistente e anzi crescente povertà, una quota molto ampia della popolazione che necessita del sostegno pubblico (quota regolarmente ampliata dal susseguirsi di crisi di vario genere), una crescente concentrazione del reddito e della ricchezza, e il sospetto di una crescente commistione tra potere economico e potere politico e, quindi, di una certa ineguaglianza nell’accesso effettivo dei singoli cittadini alle istituzioni, vale la pena chiedersi: verso quale forma di organizzazione sociale stiamo convergendo? E quali saranno le conseguenze a medio e lungo termine?

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