La settimana corta fa bene ai lavoratori. E anche alle aziende
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La settimana corta fa bene ai lavoratori. E anche alle aziende

LA' DOVE APPLICABILE, LA SETTIMANA DI QUATTRO GIORNI LAVORATIVI VA INCONTRO ALLE ESIGENZE SOPRATTUTTO DELLE NUOVE GENERAZIONI, PIU' ATTENTE AL RAPPORTO TRA VITA PRIVATA E LAVORATIVA. E SE I LAVORATORI SONO FELICI LA PRODUTTIVITA' AUMENTA, SPIEGA ELENA GRAMANO, ASSISTANT PROFESSOR DI DIRITTO DEL LAVORO

di Davide Ripamonti

Lavorare quattro giorni invece di cinque, percependo lo stesso stipendio. Quale lavoratore direbbe di no? Se, poi, anche le aziende sono favorevoli, allora il gioco è fatto e le nuove regole pronte per entrare in vigore. Eppure non è così semplice. Innanzitutto perché il modello non è replicabile ovunque e in qualsiasi organizzazione aziendale, poi perché permangono alcune resistenze culturali, anche se questo ostacolo, molto presente in alcuni paesi tra i quali l’Italia, sembra sempre più possa essere superato. Di settimana lavorativa corta parliamo in questa intervista con Elena Gramano, assistant professor di diritto del lavoro presso il Dipartimento di studi giuridici dell’Università Bocconi.

Esistono varie ipotesi di modalità di settimana corta allo studio, ma la più interessante, e su cui sono stati condotti esperimenti, è quella fondata sullo schema 100-80-100, cioè 100% di stipendio, 80% delle ore lavorate, 100% di produttività garantita. Quali sono le prime evidenze di queste sperimentazioni?
In Inghilterra Nel Regno Unito è stata di recente condotta una ricerca che ha coinvolto una sessantina di aziende per un totale di quasi 3 mila lavoratori che, da giugno a dicembre del 2022, hanno adottato questo modello. Le aziende hanno valutato positivamente la loro esperienza complessiva, dicendo che le prestazioni aziendali e la produttività sono rimaste alte i ricavi sono aumentati e il fatturato è rimasto invariato. Si trattava di aziende del terziario, perlopiù di settori come marketing e finanza. Il 18% circa di tali aziende ha adottato questo nuovo modello di organizzazione, molte altre hanno deciso di prolungare la fase di sperimentazione.

L’introduzione della settimana corta risponde anche all’esigenza, manifestata soprattutto dalle nuove generazioni, di un maggiore bilanciamento tra vita privata e vita lavorativa. È per le aziende anche una leva per attrarre nuovi lavoratori?
Certamente, ma non solo per attrarre, anche per trattenere quelli che già sono sotto contratto, perché in questa fase sono sempre di più le aziende che devono fare conto i conti con esodi di personale. Si verifica in pratica il contrario di quanto si pensava qualche anno fa, e che cioè ridurre la settimana lavorativa fosse essenzialmente un modo per creare nuovi posti di lavoro. Offrire flessibilità, dare alle persone la possibilità di gestire più autonomamente il proprio tempo pur all’interno di un contratto di lavoro subordinato è uno strumento molto efficace per attirare personale più preparato e per avere lavoratori più soddisfatti, con benefici anche sulla loro produttività.

La settimana corta e in generale le modalità di lavoro più flessibili potrebbero portare all’interno dell’azienda delle disparità tra settori o mansioni che possono facilmente accedere alla flessibilità e altri che non possono permettersela. Questo è un tema caro soprattutto al sindacato…
Il sindacato in linea generale guarda con favore alla settimana corta, purché venga effettivamente rispettato lo schema uguale salario-meno ore lavorate. Ma non avrebbe senso una misura normativa che imponga a tutti questa nuova disciplina questo modello. Bisogna lasciare largo spazio alla contrattazione collettiva per stabilire a chi applicare la riduzione della settimana lavorativa, in particolare alla contrattazione di secondo livello. Non esiste un modello standard e del resto, se ci pensiamo, nemmeno il tradizionale modello delle 40 ore è applicabile ovunque. In Belgio nel 2022 è stata varata una legge sulla settimana corta che affida proprio alla contrattazione collettiva il ruolo di stabilire norme precise.

In pochi lustri il mondo pare davvero cambiato. Tra gli anni ’90 e l’inizio del nuovo secolo la new economy ha visto il fiorire di aziende che proponevano una serie di benefit (palestre, luoghi di riunione e di svago eccetera) sul luogo di lavoro per trattenere i dipendenti più ore possibile in azienda. Adesso si va in direzione opposta. Qual è stato il ruolo della pandemia in questo?
Se prendiamo per esempio lo smart working, da noi una legge in merito, la numero 81 del 2017, era già stata introdotta prima della pandemia. Non era però seguita un’applicazione pratica. La pandemia ha dapprima imposto a tutti questa modalità, che poi è rimasta presente in molte realtà aziendali sulla base di accordo tra le parti anche dopo la fase di emergenza. Lo smart working e la settimana corta, sebbene restino due modalità molto differenti, sono riconducibili entrambe all’esigenza di conciliare vita privata e vita lavorativa, e sono rese possibili grazie al cambiamento delle logiche di organizzazione del lavoro. Si è finalmente capito che lavorare da remoto, o lavorare meno ore, non implica per forza una perdita di produttività, anzi spesso è vero il contrario. Spetta alle aziende trovare la modalità per misurare le prestazioni.

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