Il ritorno delle Province
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Il ritorno delle Province

QUATTRO PROPOSTE BIPARTISAN CHIEDONO IL RITORNO A UN RUOLO DA PROTAGONISTA PER L'ENTE DEPOTENZIATO DALLA RIFORMA DELRIO. MA CON QUALI RUOLI E QUALI RISORSE? NE PARLIAMO CON SILVIA ROTA, DIRETTRICE DELL'EMMAP DELLA SDA BOCCONI

di Davide Ripamonti

Le province, intese come organi amministrativi, sono state abolite. Anzi no. Malgrado questo sia il pensiero comune, in realtà sopravvivono, pur se depotenziate, a quasi 10 anni dalla riforma Delrio che ha introdotto le città metropolitane per i comuni più grandi. Di questa riforma e delle proposte bipartisan di ricostituire l’ente ridotto ai minimi termini dalla riforma parla in questa intervista Silvia Rota, direttrice dell’Executive Master in Management delle Amministrazioni Pubbliche della SDA Bocconi School of Management.

Le province sono state le grandi sacrificate sull’altare di una riforma, attuata nel 2014 dal governo di Matteo Renzi e nota con il nome dell’allora ministro alle infrastrutture e trasporti, Graziano Delrio, che però, secondo molti, non avrebbe raggiunto gli obiettivi che l’avevano ispirata.
In quel periodo la narrativa con cui era stata promossa la riforma era che si dovesse razionalizzare la spesa pubblica e ridurre i costi della politica per rendere la pubblica amministrazione più efficiente. La riforma Delrio sugli enti locali, sulla carta, poneva tuttavia un obiettivo più ampio richiamando i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza degli assetti e delle funzioni degli enti locali. A quasi 10 anni di distanza non si può dire che abbia raggiunto gli obiettivi desiderati.

In quella riforma le province, come dicevamo prima, sono state individuate come l’anello debole sul quale intervenire. In concreto, come si è agito?
Innanzitutto, creando le città metropolitane (10 previste dalla legge più 4 istituite dalle regioni a statuto speciale) nei più grandi territori, che hanno di fatto sostituito le vecchie province, e ridefinendo il sistema delle rimanenti province. In tale quadro sono stati ridefiniti i compiti istituzionali, attribuendo più funzioni alle città metropolitane (come lo sviluppo strategico del territorio) e prevendendo per le province un passaggio delle funzioni non fondamentali ad altri enti come comuni e regioni, e si è inciso sui meccanismi di elezione degli organi rappresentativi di tali enti che sono diventati indiretti. Ad esempio, il sindaco metropolitano è di diritto il sindaco del comune capoluogo e il presidente della provincia è eletto dai sindaci e dai consiglieri dei comuni afferenti. Analogamente, l’organo di indirizzo e controllo (consiglio metropolitano/provinciale) si compone del sindaco metropolitano/presidente della provincia e da un numero di consiglieri variabile in base alla popolazione residente.

Si è anche cercato di regolamentare le fusioni di comuni e le gestioni associate di servizi e funzioni comunali.
Il dato di fatto è che negli anni seguenti abbiamo assistito a una progressiva riduzione delle risorse umane e finanziarie a disposizione di questi enti riducendo drammaticamente la loro capacità di investire in nuove progettualità e servizi per i territori di riferimento, salvo rarissime eccezioni guidate più dalla buona volontà che non da un sistema di regole o incentivi (non solo finanziari). Inoltre, non abbiamo assistito all’auspicata impennata di fusioni tra piccoli comuni né tantomeno all’incremento di gestioni associate. Piuttosto, si è osservato un mantenimento dello status quo precedente alla riforma: la fusione tra comuni non è mai decollata e le gestioni associate si sono mostrate in tutta la loro complessità politica e gestionale, al punto che in alcuni contesti si è ridotta la numerosità dei servizi associati o addirittura i comuni hanno fatto retromarcia rispetto all’unione.

Ora le forze politiche, di entrambi gli schieramenti, vogliono rimetterci mano a partire dall’elezione diretta del presidente e dei consiglieri, più nuove funzioni da ripensare e riportare al vecchio ente intermedio depotenziato dalla riforma Delrio. E’ un passo indietro oppure una necessaria opera di ravvedimento?
Tutto sommato considero positivo che il legislatore abbia preso consapevolezza dell’inefficacia della riforma. Una riforma che sottendeva tanti obiettivi (razionalizzare la spesa oppure modificare il rapporto tra cittadini elettori ed eletti negli enti intermedi? Oppure entrambi?), basata sull’ipotesi che tutte le province fossero in grado di ripensare al proprio mandato istituzionale attivando forme di collaborazione con gli altri enti del territorio, e non tenendo conto delle differenze sociali, economiche, geografiche dei diversi contesti. Come sappiamo alla riforma sono seguiti una riduzione delle risorse finanziare destinati ai territori e un impoverimento di competenze. Per quanto riguarda le proposte presentate, senza entrare nei dettagli di ciascuna, la grande domanda è: in quale direzione si vuole andare? Ripensare agli assetti istituzionali degli enti locali in chiave sempre più federalista? Ripristinare l’elezione diretta? Favorire la capacità di spesa di questi enti in un momento storico in cui abbiamo a disposizione più risorse per investimenti locali? Dotare gli enti delle competenze e professionalità di cui si sono impoveriti negli anni precedenti? E con quali risorse finanziarie, anche correnti?

Un altro tema già accennato non solo simbolico ma anche di sostanza, è che la riforma Delrio ha tolto ai cittadini la possibilità di eleggere i vertici degli organi provinciali. Questo che conseguenze ha avuto?
Potere eleggere direttamente i propri rappresentanti, ancor di più nelle istituzioni del territorio, alimenta il senso identitario e di appartenenza alle istituzioni e diminuisce il distacco tra amministratori e cittadini amministrati. Ma dobbiamo tener conto di due aspetti fondamentali, tra loro collegati: il primo è che gli elettori hanno bisogno di vedere e toccare con mano risultati concreti e il valore generato dall’ente locale per la collettività amministrata. Il secondo è legato alla necessità di leggere con lucidità i recenti risultati elettorali, l’astensionismo, la disaffezione verso le istituzioni… sul primo punto penso che le province, le città metropolitane e più in generale le pubbliche amministrazioni possano fare ancora molto e meglio, sul secondo la sfida è ardua ma, di nuovo, ci si può lavorare e un pezzo importante di responsabilità e proprio in capo alle istituzioni stesse.

Due parole sul ruolo dell’Europa, visto che il Pnnr metterà a disposizione anche degli enti locali un importante contributo monetario. Può influire in qualche modo?
L’Europa in questa fase è alle prese con alcune sfide tra loro interconnesse e che hanno impatto su scala globale come il conflitto russo-ucraino e la ripresa economica post-covid in chiave sostenibile. Occorre pertanto garantire l’attuazione PNRR e al contempo non perdere di vista gli impatti che queste sfide generano anche su scala locale, si pensi ad esempio all’impennata dei costi energetici e più in generale alla ripresa di un’inflazione a cui non eravamo più abituati. Inoltre le province sono attori chiave sia perché destinatarie dirette di maggiori risorse finanziarie, sia per la loro natura di ente intermedio direttamente responsabile di alcune funzioni fondamentali e centrali nel PNRR (come la pianificazione, tutela e valorizzazione ambientale, il trasporto pubblico, l’edilizia scolastica), sia perché potenziali partner o sostituti dei comuni nella gestione di alcuni servizi tecnici-amministrativi imprescindibili. L’Europa non ci impone un modello da seguire, dobbiamo da soli trovare la strada per migliorare la capacità degli enti intermedi come le province di essere pivot di una rete territoriale capace di sostenere investimenti e servizi.

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