Sopravvivera' la WTO alla guerra dei dazi di Trump?
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Sopravvivera' la WTO alla guerra dei dazi di Trump?

LA POLITICA COMMERCIALE DEL PRESIDENTE AMERICANO PUO' RENDERE IRRILEVANTE L'INTERA FUNZIONE DELL'ORGANISMO INTERNAZIONALE, PERCHE' CHIUNQUE POTRA' VIOLARE LE REGOLE. COL RISCHIO CHE GLI USA IMPONGANO IL LORO PESO

di Giorgio Sacerdoti, professore emerito di Diritto internazionale alla Bocconi

La guerra commerciale che, quasi di punto in bianco, il presidente Trump ha scatenato, non solo contro la Cina ma anche contro il resto del mondo, rischia di destabilizzare profondamente l’assetto degli scambi internazionali, i flussi commerciali consolidati, le catene transnazionali di produzione. Se si pensa che l’export è per molti paesi, compresa l’Italia, il settore più dinamico che ha sostenuto la crescita negli ultimi anni, c’è da essere seriamente preoccupati.

Al motto di America First e Bring back the jobs home, Trump si è mosso come un elefante in un negozio di cristallerie. Incurante della fitta rete di accordi multilaterali (la WTO), ma anche regionali e bilaterali creati su impulso proprio degli Stati Uniti negli ultimi decenni, fonte di regole bilanciate e certe, che precisano diritti e obblighi reciproci tra Stati per assicurare sicurezza al regime degli scambi, l’amministrazione Trump non ha esitato a introdurre barriere unilaterali - cominciando con dazi all’importazione di acciaio e alluminio, giustificati in modo poco credibile con ragioni di sicurezza nazionale -  con l’obbiettivo di riequilibrare  la bilancia commerciale americana  su base bilaterale e  proteggere industrie americane poco concorrenziali. Non ha esitato neppure a far marcia indietro su aperture da tempo concordate a livello regionale con i rinegoziati del NAFTA e dell’accordo con la Corea, condotti sotto la minaccia di abrogarli del tutto. Incombe infine la minaccia di ulteriori sovradazi del 25% all’import di auto, come strumento di ricatto verso i partner che non si sedessero al tavolo disposti a fare concessioni.

Non sono solo gli economisti a dubitare che queste misure protezionistiche ottengano i risultati che Trump si propone (il deficit americano negli scambi con la Cina continua ad accrescersi).  La stessa industria americana si è dichiarata scettica se non contraria, a causa degli aumenti di costi e della conseguente perdita di competitività, visto l’ampio ricorso del settore manifatturiero a prodotti intermedi importati dall’estero. Il recentissimo annuncio della General Motors di voler chiudere impianti negli USA ne è un chiaro segnale.
Va poi tenuto in conto della risposta dei paesi colpiti. Se qualche partner più debole (Corea, Argentina) ha acconsentito obtorto collo ad accettare di limitare le proprie esportazioni verso il mercato americano, nonostante il palese contrasto con le regole del WTO, Unione Europea, Cina, Messico, Canada e persino la Turchia hanno risposto con controdazi che colpiscono le esportazioni made in USA.

Vi è poi la guerra ancora più diretta lanciata dagli USA contro la Cina. In poco tempo la Cina ha cessato di esser valorizzata come principale paese fornitore e importante mercato di sbocco, pur se temibile concorrente, per essere presentata, probabilmente in modo esagerato, come una potenza ostile e sleale, che non segue le regole di mercato e mira a sottrarre tecnologia alle imprese americane. Di qui l’imposizione di dazi specifici cui però la Cina ha risposto colpo su colpo. Ne hanno fatto le spese per primi i produttori di soia del Midwest americano per i quali la Cina costituisce il principale paese di sbocco: mentre gli allevatori di maiali cinesi si riforniscono ora in Brasile e Argentina, i prezzi della soia americana sono crollati e il governo federale è dovuto correre ai ripari con sussidi fino a 12 miliardi di dollari.

Davanti a questo sconquasso, per non parlare delle ulteriori tariffe che gli USA minacciano contro la Cina, portandole dal 10% a 25%, e quelle sulle auto nei confronti di tutti i paesi, ci si chiede: cui prodest? Se la scelta isolazionista, protezionista e unilateralistica degli USA rafforzerà (o ripristinerà) veramente il ruolo primario del paese sulla scena mondiale o se non lo isolerà a favore di un nuovo assetto delle relazioni economiche mondiali, ancora peraltro da decifrare.

Colpisce, e per certi versi anzi indigna, vedere che tutte queste misure sono prese in completo spregio delle regole multilaterali della WTO, di cui gli Stati Uniti sono stati gli alfieri con la positiva conclusione dell’Uruguay Round di negoziati commerciali a metà degli anni 1990. Un sistema di regole di cui essi sono i primi beneficiari, tale da assicurare uguaglianza di trattamento per tutti gli Stati, equilibrio tra diritti e obblighi, sicurezza per gli operatori che i mercati resteranno aperti e che le tariffe negoziate saranno rispettate. Si tratta di conquiste preziose, che hanno assicurato uno sviluppo sostenuto degli scambi, l’aumento della ricchezza globale, l’’ingresso nell’economia moderna di masse di diseredati nei paesi in via sviluppo, senza precludere il diritto di tutelare con specifiche misure di difesa commerciale gli eventuali “perdenti della globalizzazione” nei paesi importatori.

L’invocazione da parte della amministrazione Trump della deroga prevista al WTO per misure necessarie alla sicurezza nazionale onde giustificare le restrizioni non ha certo convinto i paesi colpiti, che hanno risposto con proprie contromisure e hanno iniziato procedure contenziose contro gli Stati Uniti al WTO. Qui però gli Stati Uniti si sono dati ad un gioco pesante, paralizzando il funzionamento del tribunale (“l’Organo di Appello”) chiamato in ultima analisi a decidere.  L’amministrazione Trump blocca infatti da oltre un anno il rinnovo dei membri del tribunale, che da sette si sono così ridotti a tre, con la prospettiva che se il blocco continuasse, alla fine del 2019 verrà a mancare chi decida e assicuri il rispetto delle regole.

A questo punto la funzione dell’intera WTO sarà resa irrilevante, perché chiunque potrà impunemente violare le regole, col rischio, come succede in questi casi, che il più forte (leggi gli Stati Uniti) imponga il suo peso.

Da qualche mese l’Unione Europea, che del rispetto delle regole nelle relazioni internazionali si è fatta da sempre paladina, anche per non fare la fine del proverbiale vaso di coccio, è scesa in campo, non solo per parare la minaccia americana dei dazi sulle auto, ma per lanciare un processo di “modernizzazione” della WTO che dia risposta ai problemi emersi. Tra i più importanti la disciplina dell’e-commerce e il controllo dei sussidi alle imprese di stato nelle economie non di mercato (leggasi Cina). La disponibilità dei maggiori protagonisti come USA e Cina di sedersi al tavolo negoziale è però dubbia; la tentazione da parte dell’amministrazione Trump di paralizzare la WTO traspare da molte prese di posizione. Di qui la diffusa cautela sulle prospettive di successo del G-20 di fine novembre a Buenos Aires dove i negoziati multilaterali dovrebbe essere rilanciati, così come quelli bilaterali USA – Cina, con un faccia a faccia tra Trump e Xi Jinping.

Imprescindibile in ogni caso é che si ristabilisca al più presto il funzionamento e il rispetto del sistema di soluzione delle controversie del WTO. Senza di esso ogni riforma sarà illusoria. Pochi giorni fa l’Unione Europea ha messo sul tavolo a Ginevra, insieme ad altri paesi delle precise proposte che, a livello tecnico, mirano a venire incontro alle critiche americane alle procedure come si svolgono attualmente. A breve sapremo se queste critiche sono pretestuose o se gli Stati Uniti sono disposti a sedersi al tavolo e risolvere le questioni pendenti prima che sia troppo tardi. 

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