Gas a meta' prezzo da quando c'e' lo shale
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Gas a meta' prezzo da quando c'e' lo shale

LA RIVOLUZIONE, PARTITA DAGLI STATI UNITI, HA PORTATO ANCHE DUE MILIONI DI POSTI DI LAVORO. MA E' DIFFICILE CHE IN EUROPA SI DIFFONDA LA TECNICA DEL FRACKING

di Matteo Di Castelnuovo, direttore del Master in green management, energy and corporate social responsibility

Negli ultimi mesi il tema dello shale gas o gas da scisti è diventato molto popolare sui principali mezzi di informazione e nei convegni che affrontano temi energetici e non solo (es. competitività di un paese). Innanzitutto è bene chiarire che per shale gas si intende un gas di tipo non convenzionale, cioè intrappolato in accumuli di rocce argillose a profondità comprese tra duemila e quattromila metri. Per queste sue caratteristiche geologiche, la sua estrazione è più complessa di quella del gas convenzionale, dal momento che richiede l’utilizzo di due tecnologie particolari quali la trivellazione orizzontale e il cosiddetto fracking, in cui getti di acqua ad alta pressione vengono iniettati nel sottosuolo per frantumare le rocce e liberare il gas intrappolato.

Ma da dove nasce tutto questo clamore per lo shale gas? Alcuni semplici numeri relativi agli Stati Uniti possono aiutare a comprendere perché se ne parli tanto. Grazie soprattutto all’innovazione tecnologica e ai minori costi di estrazione, la produzione dello shale gas è passata dal 7% della produzione totale di gas nel 2007 al 41% nel 2013 (50% stimato per il 2025), facendo diventare gli Stati Uniti il primo produttore al mondo; si stima che entro tre anni gli Stati Uniti diventeranno per la prima volta esportatori netti di gas. Per quel che riguarda gli indicatori economici, considerando l’intera catena del valore, l’occupazione del settore gas non convenzionale è più che raddoppiata arrivando a oltre due milioni di posti di lavoro, che secondo uno studio Ihs arriveranno a 3,9 milioni nel 2025, con entrate fiscali cumulate pari a 1.600 miliardi. Grazie alla sua maggiore disponibilità, il prezzo del gas è passato da 8,2 dollari/mBbtu (milioni di British thermal unit), nel 2005 a 3,7 dollari/mBtu nel 2012, con una discesa del 54%.  

Presenze di giacimenti significativi di shale gas sono state stimate anche in Europa, soprattutto Francia, Germania, Polonia e Inghilterra. Alla luce dei numeri americani sopra indicati e di fattori quali il timore per la sicurezza delle forniture di gas da parte di alcuni paesi extraeuropei, appare comprensibile come alcuni governi europei abbiano cominciato a guardare con interesse allo sfruttamento dei giacimenti di shale gas. Tuttavia, secondo diversi commentatori, un simile boom dello shale gas in Europa non potrà mai avvenire per diversi motivi, tra cui la mancanza di adeguate infrastrutture, la maggiore densità abitativa, la mancanza di piccoli produttori indipendenti, un regime fiscale meno incentivante, la minore disponibilità d’acqua, la mancanza di un diritto minerario del proprietario terriero, solo per citarne alcuni. Forti preoccupazioni permangono anche in merito all’indubbio impatto ambientale di tali tecnologie estrattive: in Germania per esempio l’industria dei birrifici è una delle lobby che maggiormente si oppone al fracking nel timore di una contaminazione delle falde acquifere.
Pur volendo escludere un boom dello shale gas europeo, il fenomeno appare comunque rilevante. Infatti, anche se realisticamente la prima molecola di shale gas statunitense non potrà arrivare in Europa prima del 2018, i suoi effetti sono già stati percepiti sui mercati europei: a causa di minori prezzi del gas negli Stati Uniti, le centrali elettriche hanno ridotto l’uso del carbone che quindi si è indirizzato verso i mercati europei (ma anche quelli asiatici), di fatto incentivandone ulteriormente un suo utilizzo da parte dei generatori elettrici, con buona pace delle politiche europee per il controllo delle emissioni di CO2.

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