Quando la razionalita' incontra l'effimero
PERSONE |

Quando la razionalita' incontra l'effimero

FRANCESCA BELLETTINI E' AMMINISTRATORE DELEGATO DEL MARCHIO DI MODA SAINT LAURENT: LA CREATIVITA' DISTINGUE IL MONDO DEL LUSSO DA OGNI ALTRO SETTORE. PERCIO' BISOGNA RISPETTARLA

E' arrivata nel mondo del lusso dall’investment banking, occupandosi di finanza straordinaria e, in particolare, di fusioni di piccole aziende del settore. Così Francesca Bellettini, laureata in Bocconi, nel 1999 è approdata in Prada e nel 2003 è entrata in Kering, il colosso francese del lusso da oltre 11 miliardi di euro di proprietà della famiglia Pinault. Lavorando prima per Gucci e poi per Bottega Veneta, nel 2013 è stata nominata ceo di Saint Laurent e ha preso parte a un’importante operazione di rebranding della maison che ha fatto registrare nella prima metà di quest’anno una crescita del 23,7%, la migliore performance tra i brand del gruppo Kering. Dai numeri alla creatività pura, il compito di Francesca Bellettini è quello di vendere il sogno del lusso, mantenendo la competitività di questo iconico marchio della moda. Ecco come.

Le due anime delle aziende del lusso sono il ceo e il direttore creativo. Che rapporto c’è tra queste figure?
Quello che sempre mi affascina del settore del lusso è la necessità di creare business da qualcosa di effimero: la creatività. Imparare a rispettarla è la sfida più importante perché è proprio questa che rende il mondo del lusso diverso da qualunque settore produttivo. Non si può scendere a compromessi con il posizionamento del brand, non si possono fare scelte di breve periodo che porterebbero alla perdita dei valori del marchio nel medio-lungo periodo. Nel lusso c’è creatività, nel settore dei beni di largo consumo c’è marketing.

Di che cosa si occupa un ceo del settore del lusso?
Oltre a far quadrare i conti e salvaguardare il posizionamento del brand, deve instaurare con il direttore creativo un rapporto di reciproco rispetto, fiducia e stima, costruendo un’organizzazione e un ambiente che favoriscano la creatività. Il ceo deve anche saper scegliere il designer più adatto a rendere contemporaneo il brand, senza offuscarne i valori e la storia.

Come si fa a preservare l’iconicità di un brand come quello di cui è alla guida e, nello stesso tempo, renderlo contemporaneo?
Nel 1966, Yves Saint Laurent è stato il primo couturier a creare una linea di prêt-à-porter e l’ha fatto esprimendo al massimo i valori di autenticità del brand e dell’epoca. Così, accanto alla linea di haute couture Yves Saint Laurent, nasceva il marchio Saint Laurent Rive Gauche. Nel tempo, la maison ha smesso di produrre alta moda e nel marchio Yves Saint Laurent sono confluite anche le collezioni di prêt-à-porter, creando confusione nella percezione del brand. Nel 2012, con Heidi Slimane, è stata avviata un’operazione di rebranding della maison che ha visto rinominare il marchio per riportare chiarezza nel suo posizionamento: così ridando alle cose il proprio nome, Yves Saint Laurent è diventato semplicemente Saint Laurent. Se un giorno dovessimo tornare a fare haute couture la chiameremo di nuovo Yves Saint Laurent.

Qual è stato il suo contributo in questo processo?
Quando sono arrivata in Saint Laurent mi sono resa conto che condividevo molto di quello che già esisteva, dal bilanciamento delle categorie prodotto che consentiva di essere rilevanti sia nel ready-to-wear che negli accessori, a quello distributivo nei retail e nel wholesale, fino a una presenza equilibrata nei mercati, senza sovraesposizioni in una sola area geografica. Ho, invece, definito in maniera radicale il sistema delle business unit che prima interessava solo il comparto della pelletteria.

Di che cosa si tratta?
L’azienda è divisa in tre business unit che corrispondono ad altrettante categorie merceologiche: ready-to- wear, calzature e accessori. Ogni business unit mette insieme produzione e sviluppo prodotto garantendo una linearità di processo, dalla creazione fino alla consegna in negozio. La business unit funziona, però, finché non diventa un’azienda nell’azienda. In Saint Laurent le tre business unit riportano al coo che coordina le aree con coerenza e secondo i valori del brand, stimola sinergie, garantisce il trasferimento di best practice.

Rispetto ai mercati quali cambiamenti ha portato?
Ho creato autonomia dei mercati nominando un responsabile per ogni area, con il compito di riportare direttamente a me: queste figure sono i miei occhi e le mie braccia nelle diverse zone del mondo, per garantire la migliore attenzione al consumatore. Dal centro non si può pretendere di conoscere il mercato meglio di chi lo vive.

Vengono fatte collezioni ad hoc per soddisfare le esigenze dei diversi mercati?
No, la collezione è sempre la stessa. Cerchiamo, invece, di fare buying mirati per negozio grazie ai buyer locali. Inoltre, ci affidiamo a un fortissimo coordinamento del buying centrale che ci consente di essere sempre in stock con i best seller. 

Oggi si possono comprare le collezioni di moda nel momento in cui sfilano, cosa sta cambiando nell’esperienza d’acquisto?
Non credo nel format see now, wear now; credo invece nel buy now, wear now che significa fare collezioni che prevedano pezzi senza stagione da indossare nel momento dell’acquisto, senza aspettare, per esempio, l’inverno. Le collezioni, infatti, vengono esposte nei negozi ben prima che inizi la stagione.

Perché non crede nel see now, wear now?
E’ un modello compatibile con le aziende del fast fashion ma non con il processo creativo dei brand del lusso. Creare qualità richiede tempo, così come vendere un’emozione. Le aziende del lusso creano tendenze che non possono essere capite immediatamente dal pubblico perché alle volte sono molto forti e dirompenti. La sfilata, le campagne pubblicitarie e le uscite sui giornali servono ai consumatori per familiarizzare con un determinato trend e interiorizzarlo. L’attesa crea il sogno: le sfilate sono un po’ come i teaser dei film che vengono trasmessi molto tempo prima che il film sia nelle sale, alimentando il desiderio di andare a vederlo.

Esiste il lusso accessibile?
Sì, è rappresentato dai prodotti d’ingresso che non devono costituire una categoria a sé come quella degli accessori ma devono essere individuati in ogni settore merceologico. Nel ready-to-wear, per esempio, si tratterà di jeans e T-shirt che costeranno decisamente meno rispetto agli altri capi, pur mantenendo un posizionamento alto: sarebbe sbagliato vendere una T-shirt marchiata Saint Laurent a 20 euro perché si distruggerebbe l’aspetto aspirazionale del brand.
 
 

di Allegra Gallizia

Ultimi articoli Persone

Vai all'archivio
  • Questa non e' una societa' per giovani, donne e stranieri

    Le vulnerabilita' aumentano la' dove si incontrano questi tre fattori di svantaggio, spiega Roberto Barbieri, alumnus e d.g. di Oxfam Italia. E in un'Italia che non mostra segnali di inversione di tendenza, i problemi sociali diverranno piu' profondi

  • Le due vie dell'Egitto per i beni di largo consumo

    Esportazioni agricole da un lato e potenziamento della produzione locale dall'altro: queste le opportunita' che individua Moustafa Hassanein, alumnus e deputy GM di Maggie Metal Corporation, nel mercato di un paese demograficamente in continua crescita

  • Tre citta', tre case per gli alumni Bocconi

    I bocconiani che lavorano nelle istituzioni europee a Bruxelles, Francoforte e Lussemburgo hanno un punto di riferimento anche nei chapter locali della Bocconi Alumni Community. La parola ai tre leader

Sfoglia la nostra rivista in formato digitale.

Sfoglia tutti i numeri di via Sarfatti 25

SFOGLIA LA RIVISTA

Eventi

Lun Mar Mer Gio Ven Sab Dom
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30