Candidati alle elezioni con big data
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Candidati alle elezioni con big data

NEGLI STATI UNITI L'INFRASTRUTTURA STATISTICA DEI PARTITI A DETERMINANTE. GEORGE SOROS HA DONATO 2,5 MILIONI AI DEMOCRATICI PER MIGLIORARE LE ANALISI

di Tommaso Nannicini, professore associato presso il Dipartimento di economia della Bocconi

Ormai in molti paesi la raccolta dati e l’analisi statistica sono parti integranti delle campagne elettorali. Anche in Italia si fa un gran parlare di big data, ma i database dalle grosse dimensioni, raccolti soprattutto online, da soli non bastano. Servono smart data, dati raccolti in maniera mirata e intelligente, possibilmente con interventi di natura sperimentale, per capire come disegnare il marketing elettorale più efficace a seconda del contesto competitivo. Gli Stati Uniti hanno fatto scuola, ma molti altri hanno imparato la lezione.

Per chi è interessato all’argomento, una lettura divulgativa d’indubbio interesse è il libro del giornalista Sasha Issenberg, The Victory Lab, che racconta decenni di esperienze nel settore. Decenni di prove ed errori, di collaborazioni a volte riuscite e a volte meno tra politici, consulenti e accademici. Un mix di intuizioni di singoli visionari e di scelte politiche forti operate a livello di partito, come quando il Democratic National Committee decise negli anni ’80 di investire su un gruppo che lavorasse sulla raccolta e sull’analisi dei dati. Questo approccio ha portato a ridisegnare metodi tradizionali come il porta a porta, le cartoline postali e le telefonate di propaganda, lasciando che siano i dati a orientare questi strumenti.
È di pochi mesi fa la notizia che George Soros ha donato 2 milioni e mezzo di dollari per finanziare lo sforzo di un’organizzazione vicina al partito democratico specializzata nella raccolta dati. Obiettivo: creare un’infrastruttura statistica che possa essere usata da tutti i candidati democratici nelle elezioni di metà mandato di quest’anno, controbilanciando gli sforzi che i repubblicani stanno già portando avanti.

Negli Stati Uniti, è ormai chiaro a tutti che saper raccogliere e usare i dati non basterà per vincere, ma non saperlo fare è una ricetta sicura per perdere.
E in Italia? Agli spin doctor nostrani non sfuggono i risultati delle migliori pratiche statunitensi, ma l’assenza di dati, la rapidità delle campagne e un certo ritardo culturale dei candidati riducono di molto i margini di manovra. Si ha l’impressione di essere ancora negli Stati Uniti di vent’anni fa e gli spazi per innovare non mancano.
In uno studio che ho condotto con Chad Kendall e Francesco Trebbi (How Do Voters Respond to Information? Evidence from a Randomized Campaign, in corso di pubblicazione sull’American Economic Review), abbiamo realizzato un esperimento sul campo. In collaborazione con il sindaco uscente di Arezzo, Giuseppe Fanfani, che correva per la rielezione nel 2011, il nostro studio ha sottoposto gruppi diversi di sezioni elettorali estratte casualmente a tecniche di propaganda elettorale diverse (cartoline, telefonate) e a messaggi politici distinti da parte del candidato, in modo da stimarne l’effetto sulle scelte degli elettori in maniera rigorosa. I risultati mostrano che le tecniche di propaganda personalizzate (come le telefonate di volontari) e i messaggi incentrati sulla competenza del candidato hanno effetti maggiori, soprattutto sulle fasce di elettori meno politicizzati.
Insomma: in Italia esistono grossi margini per rendere le campagne elettorali più efficaci raccogliendo dati e analizzandoli in maniera rigorosa. Servono nuove forme di collaborazione tra politici, creativi e studiosi. A buon intenditor poche parole.

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