OPINIONI |

Un paradiso che non sta ne' in cielo ne' in terra

L'ATTIVITÀ CREDITIZIA DELLA SVIZZERA FATICA AD ADEGUARSI AGLI STANDARD INTERNAZIONALI, MA I PASSI AVANTI SONO GIÀ MOLTI

di Filippo Annunziata, professore associato presso il Dipartimento di studi giuridici della Bocconi

Risale a poche settimane fa la notizia secondo la quale molti cittadini americani sarebbero stati aiutati dalle banche elvetiche a trasferire capitali all’estero, al fine di evadere il fisco degli Stati Uniti: tale è la tesi che si legge in un rapporto della commissione d’inchiesta del Senato americano, alla vigilia dell’audizione dei rappresentanti di una delle banche coinvolte. L’attività si sarebbe svolta mediante la ricerca attiva di clientela sul territorio americano, l’apertura di uffici di rappresentanza negli Stati Uniti, la materiale collaborazione con intermediari offshore per agevolare il trasferimento dei fondi. L’attività delle banche elvetiche si sarebbe sostanziata, nel caso di cui si discute, anche in una raccolta di risparmio non consentita negli Usa.

Il fatto, qualora venisse accertato, andrà evidentemente vagliato dalle competenti autorità: al di là delle eventuali sanzioni o dei rimedi che l’amministrazione americana attiverà, l’episodio suscita alcune considerazioni, forse meno contingenti. Un primo profilo attiene alle incertezze che continuano a caratterizzare la disciplina internazionale in tema di mercati finanziari: pur nel contesto di un quadro che, negli ultimi anni, tende sempre più ad aprirsi alla cooperazione internazionale, permangono modelli chiusi che frappongono barriere all’operatività transfrontaliera degli intermediari. L’assenza di un quadro normativo, accettato dai paesi interessati, che disciplini espressamente l’attività cosiddetta “cross-border”, viene così sfruttata con finalità elusive (prevalentemente fiscali o, peggio, di riciclaggio), con effetti dannosi per tutti. Se i singoli sistemi tendono - comprensibilmente - a proteggersi dalla concorrenza di altri paesi, ciò tuttavia crea delle zone opache nelle quali possono trovare più agevolmente spazio comportamenti anche illeciti.

Certo, la conclusione di accordi di cooperazione richiede, nell’immediato, che ciascuno dei paesi interessati (nel caso di specie, Usa e Svizzera) rinunci a talune delle proprie prerogative esclusive, ma questo fatto – che spesso rende difficile addivenire a un accordo tra stati – può in realtà risultare foriero, nel medio e lungo periodo, di una maggior efficacia della regolamentazione e di efficienza nel funzionamento dei mercati. L’esperienza mostra, di contro, che le maglie dei divieti sono sempre troppo larghe. Su di un piano diverso, questo ennesimo episodio pone nuovamente sul tavolo la questione del ruolo della Svizzera nel contesto dei mercati internazionali. La necessità di addivenire ad un più equilibrato assetto del ruolo del paese, nei rapporti sia con l’Unione europea, sia con gli Stati Uniti, sembra sempre più impellente, sia per ragioni di sicurezza di coloro che si rivolgono alla Svizzera ritenendola piazza finanziaria evoluta e trasparente, sia per evitare il rischio di un crescente isolamento. Gli accordi recentemente conclusi dal paese con, ad esempio, alcuni stati membri dell’Unione europea, e quello attualmente oggetto di discussione anche con l’Italia (la cosiddetta “voluntary disclosure”) sembrano andare nella giusta direzione. La competenza e le professionalità della piazza finanziaria elvetica sono sicuramente meglio utilizzabili per un’attività pienamente in linea con gli standard degli altri paesi, uscendo definitivamente dalle semi-ombre dei “paradisi” e della scarsa trasparenza.

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