Brindiamo all'export
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SIAMO I PRIMI PRODUTTORI DI VINO AL MONDO MA IL PREZZO MEDIO DELLE ESPORTAZIONI E' LA META' DI QUELLO FRANCESE. TRE LE RAGIONI DEL DIVARIO, E NESSUNA DIPENDE DALLA QUALITA' DEL PRODOTTO

di Massimiliano Bruni, SDA professor si strategia e imprenditorialita'

Lo scorso anno si è celebrato un nuovo record per la produzione nostrana e qualche mese fa, in ottobre, l’Oiv, l’Organizzazione internazionale della vigna e del vino con sede a Parigi, ha reso disponibili i primi dati sulla produzione 2015. L’Italia si conferma il primo paese produttore al mondo con quasi 49 milioni di hl, in crescita di circa il 10% rispetto all’anno precedente.
Di fronte al continuo calo dei consumi domestici, oggi un italiano su due non beve vino e complessivamente ne consumiamo poco più di 20 milioni di hl, vale a dire meno di 30 litri pro capite all’anno, l’export diviene la strada obbligata per vendere le bottiglie dei produttori italiani. Ecco dunque che si deve guardare con sempre maggiore attenzione ai mercati stranieri, il più importante dei quali si confermano gli Usa. In generale qui le cose cambiano un poco.
Il 2015, malgrado la forte contrazione del mercato russo, è stato da molti celebrato come un anno record, avendo le esportazioni toccato il valore massimo nella nostra storia, raggiungendo i 5,4 miliardi di euro. Se si guarda al valore medio delle esportazioni si nota però che questo, pur essendo in crescita, si attesta a circa 2,67 euro al litro, meno della metà del prezzo medio del vino francese, che è stato di 5,84. La differenza maggiore sta nei vini frizzanti, con lo champagne che supera mediamente i nostri spumanti di circa 5 volte, ma anche nei vini fermi, dove il divario è di oltre il 30%. È sul fronte del valore riconosciuto dal mercato e sul prezzo che dobbiamo operare per accrescere la nostra capacità di generare ricchezza e per farci riconoscere l’eccellenza qualitativa di cui i nostri produttori vanno giustamente fieri.

Vediamo perché esiste un simile distacco e come possiamo provare a colmarlo. In primo luogo, mediamente le aziende italiane sono di piccole, meglio dire piccolissime, dimensioni e questo limita l’interesse di molti operatori commerciali dei mercati esteri a investire energie per valorizzare le nostre produzioni, sia per il rischio elevato di non avere sufficiente prodotto per soddisfare la domanda che per i modesti ritorni economici.
In secondo luogo, mentre in Italia prevale la cultura della regione di origine, secondo una logica ampiamente diffusa in cui l’origine del prodotto è il principale criterio di selezione e dunque di comunicazione, all’estero prevale la scelta del vitigno, prediligendo spesso i vini monovitigno ai blend o, comunque, i prodotti di facile comprensione e identificazione.

In terzo luogo, poiché l’acquisto avviene prevalentemente a scaffale, la capacità di
avere bottiglie, etichette e nomi facilmente riconoscibili, comprensibili e memorizzabili diviene di particolare importanza. Anche questa area presenta amplissimi margini di miglioramento, avendo i vini nostrani in media tre elementi da ricordare: il nome del prodotto, il nome del produttore, gli uvaggi che formano il prodotto, cui spesso si aggiunge anche la denominazione tipica, per la quale in Italia siamo arrivati ad avere quattro distinte classificazioni (Doc, Docg, Igt, vino da tavola) che certamente non facilitano la comprensione da parte di un consumatore non esperto. Non è un caso che un approccio più orientato al mercato abbia finito per generare un categoria a parte, ispirata al valore comunicato al mercato, quello dei Super Tuscan, cui appartiene la maggior parte dei vini italiani più noti e apprezzati all’estero e per i quali è necessario che il vino sia un Igt.
 

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