OPINIONI |

In medicina non c’è necessità di quote rosa

SONO DONNE I DUE TERZI DEI NEOLAUREATI E IL 55% DEI MEDICI SOTTO I 39 ANNI. MA TRA I PRIMARI SONO ANCORA RARE

di Carlo De Pietro, docente dell'Area public management and policy della Sda Bocconi

Un tempo la medicina era una professione prettamente maschile. Poi le cose sono velocemente cambiate, e negli anni Novanta le donne hanno prima raggiunto e poi superato gli uomini tra i laureati in medicina e chirurgia. È successo in Italia, dove oramai sono donne i due terzi dei laureati, e sta succedendo in tutti i paesi occidentali. Questo afflusso di giovani donne ha fatto aumentare dal 24% del 1993 al 38% del 2007 la presenza femminile sui medici in attività in Italia (dati Ocse 2009), e tutto ciò senza bisogno di alcuna “quota rosa”. Al contrario, tra le lettere ai direttori delle maggiori riviste mediche internazionali non sono rare le proposte di inserire “quote azzurre” alle selezioni per i corsi in medicina o per le scuole di specializzazione.

Una ulteriore spinta alla femminilizzazione potrebbe poi essere data dalla proposta equiparazione delle condizioni di pensionamento per uomini e donne.
Ma perché tanta attenzione alle questioni di genere con riguardo alla medicina? E cosa dovremmo aspettarci dalla femminilizzazione della professione? In genere la letteratura ha ipotizzato, e spesso ha anche confermato empiricamente, differenze rispetto almeno a tre importanti dimensioni. Innanzitutto, le donne in molti paesi (compreso il nostro, a regole attuali) hanno vite lavorative più brevi degli uomini, ricorrono maggiormente al tempo parziale e usano più frequentemente congedi parentali ecc. Di questo occorre tener conto nel definire i numeri chiusi dei corsi di laurea e delle scuole di specializzazione. In secondo luogo, le donne sembrano preferire o in ogni caso sono più numerose in alcune specialità che in altre. In Italia le specialità con maggiore presenza femminile sono la pediatria e l’ostetricia e ginecologia. Terzo, diversi studi hanno trovato differenze di genere nelle relazioni coi pazienti, nella considerazione della pratica medica, nelle decisioni cliniche (per esempio con riguardo all’utilizzo delle diagnosi prenatali o al ricorso a determinate procedure chirurgiche).
 
Se queste sono le differenze osservate in passato, sarà interessante vedere se esse saranno confermate anche in futuro. Quella in corso nella composizione di genere è infatti una vera e propria rivoluzione che potrebbe trasformare in profondità la professione medica. Nonostante ciò, finora gli impatti osservabili sembrano assai limitati, il che ridimensiona la retorica delle differenze, enfatizzate dalla sociologia delle professioni e da altre discipline.
Forse i cambiamenti portati dalla femminilizzazione saranno più evidenti quando le donne saranno più rappresentate tra i “primari”, cioè avranno ruoli capaci d’influenzare maggiormente la cultura organizzativa, gli investimenti e la pratica clinica nelle aziende sanitarie. Ma sotto questo punto di vista la strada sembra ancora lunga. Se guardiamo ai medici dipendenti di Aziende ospedaliere e Asl del Servizio sanitario nazionale (escludendo quindi specializzandi, medici che lavorano nelle strutture private, ecc.), nel 2007 erano donne il 10% dei medici con più di 59 anni, il 30% dei medici tra 50 e 59 anni, il 40% di quelli tra 40 e 49 anni, il 55% dei medici tra 30 e 39 anni (dati Ragioneria generale dello stato; un approfondimento sulla struttura demografica del personale Ssn è presente nel Rapporto Oasi 2009 del Cergas Bocconi). Tale progressiva e vigorosa femminilizzazione nelle classi più giovani non si è però accompagnata a una femminilizzazione altrettanto decisa tra i “primari”, che nelle classi di età sopra citate sono donne, rispettivamente, solo nel 6%, nel 14%, nel 20% e nel 10% dei casi.
Quindi rivoluzione sì, ma giunta solo a metà strada.

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