OPINIONI |

Come è fallace la legge sull'origine

QUEL CHE RESTA DA CHIARIRE NELLA TUTELA DEL MADE IN

di Laura Carola Beretta, docente dell'Area public management and policy della Sda Bocconi

L’incertezza delle aziende circa le indicazioni che possono essere apposte sui prodotti è destinata a continuare anche dopo la recente entrata in vigore delle ultime modifiche della legge italiana che basa la tutela dell’indicazione di origine sulla distinzione tra indicazione falsa e fallace.

Che cosa si debba intendere per falsa indicazione è chiaro: è l’apposizione dell’indicazione Made in Italy sui prodotti ottenuti all’estero che non soddisfano i requisiti delle norme europee dell’origine. Il concetto di indicazione fallace, previsto dalla norma italiana quando vi sia l’uso, anche in presenza della corretta indicazione di origine estera, di elementi evocativi dell’italianità del prodotto, ha posto, invece, numerosi problemi interpretativi e pratici. In termini interpretativi, si sono visti tribunali amministrativi e Corte di cassazione alternare, negli ultimi cinque anni, il criterio dell’origine imprenditoriale e dell’origine geografica: mentre nel primo caso è stato dato rilievo al prodotto come risultato di un processo di fabbricazione del quale l’imprenditore ha la responsabilità giuridica, economica e tecnica, a prescindere dal luogo di produzione, nel secondo caso si è fatto, giustamente, riferimento al paese in cui il prodotto è stato sottoposto all’ultima trasformazione sostanziale. La prevalenza del primo criterio negli orientamenti giurisprudenziali denota la mancanza di chiarezza sulla definizione dell’indicazione di origine che, come chiarito dall’Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale, riporta il nome di un paese come luogo di origine di un prodotto e si riferisce all’origine geografica di un prodotto e non ad altro tipo di origine come, ad esempio, l’impresa che produce il bene.
 
La normativa italiana dovrebbe dare esplicito rilievo all’accezione geografica come test per la determinazione della fallace indicazione. Le nuove disposizioni italiane tralasciano inoltre di affrontare il problema pratico di quelle aziende che, identificando i prodotti, anche di origine extra-Ce, con il loro nome e con un indirizzo italiano, rischiano, come è successo, di vedersi le merci bloccate in dogana sul presupposto che la sola indicazione dell’indirizzo italiano sia fuorviante. Va ricordato che l’impresa importatrice, al pari delle altre, è tenuta, secondo il codice del consumo italiano e alcune direttive comunitarie, a indicare il proprio nome e la propria ragione sociale in modo da consentire al consumatore di sapere a chi potersi rivolgere nel caso di danni derivati dall’uso del prodotto stesso. Per fugare i dubbi che in casi come questi sono sorti ai funzionari doganali circa la corretta indicazione sui prodotti importati, la stessa Agenzia delle dogane ha suggerito di far precedere il nome e l’indirizzo della sede dell’impresa dall’indicazione “importato da”; tuttavia questo chiarimento non ha trovato un’esplicita formulazione a livello normativo. In compenso le nuove modifiche della legge sulla tutela del Made in Italy stabiliscono, in un primo momento, che costituisce fallace indicazione l’uso fuorviante di marchi aziendali anche se è indicata l’origine estera dei prodotti, e successivamente, che in assenza di indicazione precisa ed evidente dell’origine estera, costituisce fallace indicazione l’uso del marchio con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto sia di origine italiana. Caro legislatore, che cosa hai voluto dire? Attendiamo semplificazioni e chiarimenti, o se preferisci, la riscrittura, ex novo, della norma.

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