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La Terra in svendita

I TERRENI FERTILI DI AFRICA, ASIA, SUD AMERICA SONO NEL MIRINO DI PAESI RICCHI, POTENZE EMERGENTI E MULTINAZIONALI. UNA CACCIA ALLA TERRA TANTO PER ESIGENZE DI SICUREZZA ALIMENTARE QUANTO PER QUESTIONI DI PROFITTO COME SPIEGA FRANCA ROIATTI NE “IL NUOVO COLONIALISMO”.

Franca Roiatti
Il nuovo colonialismo. Caccia alle terre coltivabili
Universtà Bocconi editore, 2009
191 pagine, 15 euro

Venti milioni di ettari, l’equivalente dell’Italia fino a Napoli: secondo una stima approssimativa, sarebbe la terra coltivabile che, solo negli ultimi due anni, “è oggetto di accordi tra paesi o dell’interesse di fondi di investimento e aziende private”, spiega Franca Roiatti ne Il nuovo colonialismo. Caccia alle terre coltivabili (Università Bocconi editore, 2009, pagg. 191, 15 euro). Una terra che per i governi di alcuni paesi, come Cina, India, Arabia Saudita significa il futuro della propria sicurezza alimentare, ma che per fondi e aziende vale la possibilità di cavalcare il nuovo business verde dei biocarburanti. In mezzo, tra governi e privati, una massa di contadini che rischiano di essere privati della terra che dà loro la sussistenza per un pugno di promesse.

Un “Risiko della terra”, dunque, che agli occhi di molti appare come una nuova forma di colonialismo e del quale il volume di Franca Roiatti ricostruisce con taglio giornalistico gli attori e i molteplici interessi in gioco.

Ci sono i paesi ricchi di risorse ma poveri di terreni, che guardano con apprensione al loro futuro alimentare. Secondo le stime della Fao, nel 2050 la popolazione mondiale arriverà a 9 miliardi e bisognerà aumentare del70% la quantità di cibo prodotta. Ciò significa almeno 1 miliardo di tonnellate in più di cereali. Una sfida resa ancor più ardua dai cambiamenti nella dieta delle popolazioni in via di sviluppo: “Oggi un cinese mangia 54 chili di carne all’anno, 20 anni fa erano 25”, scrive Roiatti. “Per far fronte a questo ritmo, nei prossimi 20 anni il colosso asiatico dovrà allevare 200 milioni di porci in più”, alimentandoli con i cereali. E non ce la farà pur essendo il secondo produttore al mondo di maiali. Poi c’è l’India, che nel 2030 diventerà più popolosa della Cina, e che al pari del Dragone si trova già oggi a fronteggiare anche un elevato rischio idrico causato dallo sfruttamento e dall’inquinamento. Ma ci sono anche i paesi come l’Arabia Saudita e il Qatar, che hanno la potente leva dei petrodollari da usare per ottenere le terre.

E se da un lato ci sono governi che, almeno in apparenza, cercano terra per garantire la sicurezza alimentare dei propri cittadini, dall’altro ci sono fondi e multinazionali a caccia di profitti attraverso l’agrobusiness: “Sebbene manchino dati consolidati”, spiega l’autrice, “il ritmo al quale fondi e società stanno investendo nella terra è considerevole. Negli ultimi anni, oltre 120 accordi e progetti che assommano a diverse decine di miliardi di dollari”. Società, come la coreana Daewoo Logistics, che ottengono gratis dal governo del Madagascar 1,3 milioni di ettari per le proprie coltivazioni intensive (la vicenda, emersa a livello internazionale, ha poi alimentato la rabbia popolare sfociata in un colpo di stato), o Africa BioFuel, costola di una multinazionale norvegese, che con la connivenza di alcuni potenti locali è quasi riuscita nell’intento di sottrarre “con l’impronta del pollice di un capo villaggio analfabeta, 38.000 ettari di terra ad Alipe” in Ghana.

Già, l’Africa. È su questo enorme continente che si gioca la partita più importante del nuovo colonialismo. La Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Africa (Uneca) ha quantificato in 733 milioni gli ettari di terra arabile, dei quali meno del 4% sarebbe sfruttato. Un patrimonio enorme, che purtroppo i poverissimi paesi africani, come l’Etiopia, ma anche quelli meno poveri, come il Kenya o la Tanzania, non esitano a svendere, soggiacendo più o meno consapevolmente a contratti spesso oscuri e poco tutelativi, pur di attrarre investimenti stranieri e con essi la promessa della costruzione di infrastrutture. Ne è l’esempio il Sudan, dove “mentre 2,5 milioni di profughi del Darfur sopravvivono con gli aiuti umanitari, il paese esporta prodotti agricoli tra i quali gli alimenti base della dieta sudanese”, scrive Roiatti. Interessi commerciali, è il dubbio, a scapito dell’agricoltura di sussistenza di milioni di piccoli coltivatori.

Ma se gli interessi in gioco sono molteplici e complessi, come rendere il fenomeno della vendita della terra, che ha i contorni del neocolonialismo, “ in una situazione win-win, vincente per tutti?”. Il punto chiave, conclude la giornalista, è “riuscire da un lato a rafforzare le capacità dei governi di negoziare gli accordi con le società e i fondi d’investimento esteri, dall’altro a tutelare i diritti dei piccoli contadini, dei pastori, le pedine più deboli nel grande Risiko della terra”.

Franca Roiatti, giornalista, ha lavorato per diversi quotidiani, radio e settimanali. Oggi si occupa di esteri per Panorama.

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di Andrea Celauro

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