L'AI? Ne' da sopravvalutare, ne' da snobbare
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L'AI? Ne' da sopravvalutare, ne' da snobbare

IL GIUSTO APPROCCIO, SPIEGA STEFANO DA EMPOLI NEL SUO VOLUME PER EGEA L'ECONOMIA DI CHATGPT', E' QUELLO CHE SI CONCENTRA SU CIO' CHE POSSIAMO CHIEDERE E QUINDI ASPETTARCI DALL'INTELLIGENZA ARTIFICIALE GENERATIVA. CHE COMUNQUE AVRA' SEMPRE PIU' UN IMPATTO SULLE ECONOMIE: A PARTIRE DA USA E CINA, I DUE TOP PLAYER, ALL'EUROPA (PER ORA PIU' CONCENTRATA SULLA REGOLAMENTAZIONE), FINO ALLE PMI ITALIANE, CHE PER LE LORO CARATTERISTICHE POTREBBERO GIOVARNE

Come tutte le maggiori rivoluzioni tecnologiche, l’intelligenza artificiale ha innescato abbastanza rapidamente una divisione tra apocalittici e integrati, ovvero tra gli atteggiamenti opposti di chi ne teme o ne esalta le virtù oltre ogni aspetto razionale. L’IA, e quella generativa soprattutto, si presenta invece come una rivoluzione talmente radicale che tutto suggerisce di affrontarla con gli strumenti dell’analisi razionale, misurando benefici e rischi tanto in larghezza, ovvero nell’ampiezza delle possibili applicazioni, quanto in lunghezza, ovvero nella proiezione nei prossimi decenni. È quanto fa Stefano da Empoli, presidente dell’Istituto per la Competitività (I-Com) e docente di Economia politica presso l’Università Roma Tre, nel volume di Egea L’economia di ChatGPT, partendo proprio dal chatbot più discusso e famoso della nuova generazione di IA.

cover di L'economia di ChatgptNella sua breve storia, l’IA ha già deluso le aspettative diverse volte. Per quale motivo con ChatGPT dovrebbe essere diverso e perché dunque dedicarvi un libro di economia?
I chatbot come ChatGPT sono un’espressione dell’IA generativa, che è solo una parte dell’IA, ma quella di cui si parla di più. Per ora rappresenta un quinto del mercato dell’IA e comunque, nelle stime di crescita per questo decennio, non supererà mai un terzo del totale. L’obiettivo del libro, dunque, non è discutere della sua maggiore o minore rilevanza, quanto confutare la narrativa che ne viene fatta oggi. C’è infatti chi deifica gli strumenti dell’IA sopravvalutandoli oltre ogni limite e dunque prefigurando un futuro nel quale le macchine sostituiranno l’uomo con esiti catastrofici. E all’opposto chi li snobba, banalizzandoli ed evidenziandone ad ogni occasione i limiti e gli errori. L’approccio corretto, invece, comincia chiedendosi quali sono le domande che dobbiamo rivolgere all’IA generativa e quali risposte possiamo aspettarci.

L’abilità nel saper interrogare le macchine è il primo requisito per ottenere risposte migliori. Le sembra che non stiamo facendo le domande giuste all’IA?
Siamo troppo agli inizi perché sia così. Finora l’IA generativa è stata interrogata soprattutto dagli informatici, dagli scienziati, da esperti che sanno come interagire con le macchine. Con ChatGPT si è persa questa intermediazione e tutti noi possiamo sollecitare l’IA, con conseguenze che oggi facciamo persino fatica a immaginare ma che avranno conseguenze enormi.

Come si costruisce un’economia, e dunque imprese, investimenti, industrie, formazione, su qualcosa che non sappiamo esattamente ancora dove porterà e in quali tempi?
Come sempre, ci saranno settori investiti per primi e altri per ultimi, ma credo che l’impatto dell’IA generativa sarà in generale più veloce rispetto a quello di alcune rivoluzioni precedenti, come per esempio l’elettricità o l’informatica, perché non richiede enormi investimenti infrastrutturali o tecnologici. In compenso, però, richiede un ripensamento culturale e organizzativo del modo di lavorare e di concepire i rapporti di lavoro. Dunque, tutti proveranno a implementare l’IA generativa nel proprio business, ma solo chi sarà più rapido ed efficace a cambiare forma mentis saprà metterla a frutto.

Lei dedica un capitolo a descrivere se e come l’IA aumenterà la produttività. È ancora un parametro che ci interessa, nonostante la smaterializzazione di molti prodotti o servizi?
Da economista mi sento di dire di sì, la produttività è ancora la base di un’economia efficiente. Possiamo discuterne i costi sociali, la distribuzione, la sostenibilità, ma resta comunque un parametro fondamentale da valutare. Ancora più in chiave italiana perché il declino degli ultimi trent’anni del nostro Paese è molto legato alla stagnazione della produttività.

Su scala globale il dualismo USA/Cina sull’automazione e le applicazioni di machine learning è sempre più evidente. L’IA generativa potrebbe rompere questo equilibrio a favore della parte americana?
L’IA generativa mette in luce i limiti strutturali del sistema di Pechino. Nonostante gli investimenti delle aziende cinesi siano molto elevati, sul loro contesto pesano alcuni fattori, in primis la censura alla rete. A parte il caso dei codici di programmazione, per i quali il problema è meno evidente, in tutto quello che riguarda la generazione di idee, testi, immagini, video e audio, il controllo dei dati di input vincola i risultati che possono fornire i chatbot. Inoltre, la maggior parte dei testi presenti in rete, sui quali si addestrano i modelli, è in lingua inglese, e questo è un grande fattore di vantaggio per gli Usa. In compenso, uscendo dall’ambito dell’IA generativa, la minore attenzione alla privacy che c’è in Cina rende più semplici e avvantaggiate le applicazioni che lavorano con i dati delle persone. Ci sono però anche altri temi da sottolineare: gli Usa e i loro alleati, a partire da Taiwan, hanno un controllo abbastanza evidente sulle catene del valore dei semiconduttori più avanzati e questo penalizza molto le aziende cinesi che non sono riuscite finora a raggiungere gli stessi standard con fornitori domestici.

Tra regole e investimenti l’Europa ha scelto di insistere più sulle prime che sui secondi, ritagliandosi il ruolo di arbitro invece che di giocatore. In qualità di membro della European AI Alliance promossa dalla Commissione europea, quali pensa siano le prospettive per le aziende europee?
A giustificazione dell’Europa mi sento di dire che a Bruxelles è certamente più facile regolare che fare politica industriale, perché quest’ultima è un territorio quasi invalicabile difeso dagli stati nazionali. Il cosiddetto Brussels Effect nasce da qui, dalla comprovata capacità dell’UE di fornire in diverse materie prodotti legislativi ben strutturati che sono stati adottati da altri paesi o dalle multinazionali per la regolazione di un certo settore, come è avvenuto, per esempio, con il GDPR, il regolamento che tutela la privacy. A lungo quindi è prevalsa l’idea che, regolando l’IA per primi, si sarebbe innescata la stessa dinamica, ma l’IA generativa ha cambiato il quadro. Negli scorsi mesi, per esempio, il dibattito si è concentrato su come disciplinare i modelli fondazionali alla base di ChatGPT perché Il testo dell’IA Act non li prevedeva affatto, limitandosi a regolare gli usi dell’IA, le sue applicazioni. Il problema è che modelli come GPT-4, possono essere usati per qualsiasi attività, alcune considerabili ad alto rischio secondo l’IA Act, altre per niente. E mentre l’UE discute, gli altri paesi si sono mossi, Usa in primis, prendendo altre strade, come quella del dialogo con le aziende, procedendo con executive order, l’equivalente dei nostri decreti ministeriali, e trasferendo questo approccio su scala globale attraverso il G7. A questo punto, se l’Europa dovesse regolare troppo rigidamente questi modelli si troverebbe paradossalmente a rallentare l’innovazione e a danneggiare le proprie aziende su scala internazionale.

Il suo libro si chiude però su note di ottimismo, anche sulla situazione italiana. Che cosa le fa pensare che il futuro possa essere roseo?
Come detto, l’IA richiede pochi investimenti in tecnologia, e questo è un fatto positivo per le aziende italiane che per lo più sono sottocapitalizzate e di piccole dimensioni. Anche il tema del cambiamento culturale è più facile da applicare in organizzazione di minore complessità, come sono tipicamente le Pmi, nelle quali a decidere sono poche persone, meglio ancora se c’è una proprietà stabile, magari familiare, che ha una visione a lungo termine dell’azienda.

L’età anagrafica degli imprenditori italiani e la scarsa managerializzazione delle Pmi agiscono però come freni inibitori di molti cambiamenti in Italia
È vero, ed è per questo che mi permetto di chiudere il mio libro con la proposta di destinare fondi non solo a investimenti in tecnologie e formazione, ma, prima ancora, per aiutare le imprese a valutare lo stato delle proprie tecnologie e a rendersi conto del delta che le separa dai migliori benchmark del settore. Ci si concentra molto sugli investimenti, ma in Italia serve potenziare la fase propedeutica, in modo anche che i programmi di sostegno, oggi alimentati soprattutto con i fondi del Pnrr, possano dare esiti migliori.

di Pietro Masotti

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