OPINIONI |

La felicita' dei neet, temporanea e relativa

PER I NOT IN EDUCATION, EMPLOYMENT OR TRAINING LA CRISI, SE DURA POCO, SEMBRA POSITIVAMENTE CORRELATA ALL'HAPPINESS

di Nicolo' Cavalli e Francesco Billari, rispettivamente, laureando in Discipline economiche e sociali in Bocconi e ordinario di demografia in Bocconi e professore di sociologia e demografia alla Oxford University

Negli ultimi cinque anni, la crisi ha colpito in particolare i giovani: secondo l’Eurostat, la disoccupazione giovanile è aumentata da 4,7 a 5,3 milioni di persone tra il 2006 e il 2010, mentre sono cresciuti i giovani classificati come neet (not in education, employment or training) e coloro che rientrano a casa con i propri genitori, almeno per un periodo, a causa delle scarse opportunità di lavoro e la difficoltà di mantenersi autonomamente. Nonostante questo, due diverse misure di benessere soggettivo mostrano una sensibile crescita nel 2010 rispetto al 2008, e nel 2008 rispetto al 2006, per i giovani europei tra i 18 e i 34 anni. La crisi, insomma, sembra essere positivamente correlata con la felicità, purché non duri troppo a lungo.

È questo il risultato che Arnstein Aassve, Francesco Billari e Nicolò Cavalli hanno ottenuto in una ricerca (A Great Recession Happiness Paradox for European Youth?) basata sui dati dell’European social survey, un’indagine biennale svolta dal 2001 in oltre 20 paesi europei con lo scopo di catturare l’interazione tra istituzioni, attitudini, comportamenti e opinioni delle varie popolazioni del Vecchio Continente. La ricerca, presentata lo scorso ottobre alla Transition to Adulthood Conference del Centro Dondena di ricerca sulle dinamiche sociali della Bocconi, ha come proprio obiettivo quello di comprendere le radici di questo risultato, illuminando le dinamiche tra differenti paesi e le variabili micro e macroeconomiche che determinano questo paradossale trend.
 
Lo studio corrobora una serie di risultati circa il rapporto che intercorre tra felicità e condizione socio-economica individuale, stabiliti negli ultimi anni dalla cosiddetta happiness economics, una branca dell’economia che ha suscitato il crescente interesse di numerosi studiosi almeno a partire dal famoso paradosso di Easterlin, secondo il quale la felicità dipende poco dalle variazioni di reddito. Allo stesso tempo, l’analisi mette in luce alcune inedite correlazioni tra la performance dei paesi durante la Grande Recessione e i livelli di felicità riportati dei giovani europei.
È vero, mostra l’analisi, che nei paesi in cui la crisi ha colpito più duramente il livello di felicità risulta più basso. Tuttavia, con l’avanzare della crisi si è assistito a un risalire del livello di felicità. Si tratta di un effetto di adattamento: i giovani europei sembrano essersi adeguati rapidamente alla nuova condizione socio-economica. Ma è un effetto solo temporaneo: col perdurare della recessione, infatti, il livello di felicità torna a scendere.
 
Ovviamente, non tutti i paesi hanno reagito allo stesso modo. I giovani in Grecia, Irlanda, Spagna e Portogallo mostrano rilevanti diminuzioni dei livelli di felicità dichiarata e l’intervento della Troika (Fmi, Ue, Bce), espresso come dimensione del prestito internazionale ricevuto dal Paese, è significativamente e negativamente correlato con la felicità.
 
Dall’altro lato, paesi come Germania, Polonia, Olanda e Norvegia, caratterizzati da performance migliori della media europea durante e dopo la crisi, mostrano un trend di aumento della felicità per tutto il periodo 2006-2010. In particolare, in questi paesi i giovani sembrano rispondere non solamente alla situazione nazionale, caratterizzata da bassi tassi di disoccupazione giovanile, ma anche alla percezione della propria condizione rispetto a quella dei coetanei in paesi in difficoltà, secondo un meccanismo definito dalla teoria della “deprivazione relativa”.
 
Questi risultati mettono in luce come in larga parte sfuggano, alla scienza economica, le complesse relazioni tra andamento dell’economia e felicità individuale: non a caso molti governi si stanno muovendo per introdurre misure di benessere accanto ai tradizionali indicatori macroeconomici.

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