Il virus si vince con la contaminazione. Dei saperi
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Il virus si vince con la contaminazione. Dei saperi

NE E' CONVINTA ALESSIA MELEGARO, DEMOGRAFA E DIRETTORE DEL COVID CRISIS LAB. UNA CONTAMINAZIONE E UN NETWORK CHE DEVONO ESSERE COSTRUITI IN TEMPO DI PACE PERCHE' E' DIFFICILE DA IMPROVVISARE DURANTE L'EMERGENZA. ECCO PERCHE' IL NUOVO LAB E' PRIMA DI TUTTO UN MODELLO PERCHE' OGGI ABBIAMO UNA PAROLA CHE CI ACCOMUNA CHE E' COVID, MA DOMANI POTREBBERO ESSERE ANCHE ALTRE

In un mondo accademico nel quale si tende sempre a premiare l’eccellenza nella specializzazione e incasellare le persone in un settore disciplinare ben preciso, Alessia Melegaro, professore associato di Demografia e statistica sociale alla Bocconi, promuove e applica da sempre un’idea di ricerca come multidisciplinarietà e contaminazione. A maggior ragione oggi che, nel suo ruolo di direttore del neonato Covid Crisis Lab, punto di incontro della ricerca sul virus targata Bocconi, coordina i lavori di oltre 30 ricercatori provenienti dagli otto dipartimenti dell’ateneo, creando connessioni e intrecciando fili tra materie apparentemente distanti.

Il Covid Crisis Lab è un modello sperimentale anche in questo senso.
Io non amo molto la teoria, per me tutto ciò che facciamo anche come ricercatori deve avere una valenza pratica. Nel mio caso è rispondere a quale vaccino sia migliore o più conveniente, quando somministrarlo, o che supporto dare alle decisioni di politica sanitaria. Questo è diventato ancora più rilevante con il Covid perché, se nella prima fase tutte le attenzioni, giustamente, sono state dedicate agli aspetti medici e di salute, per organizzare la Fase2 è chiesto il contributo di tutte le aree disciplinari e allora il dialogo tra i diversi esperti è fondamentale. Il Covid Crisis Lab può diventare un modello da replicare in altre occasioni speriamo anche meno drammatiche perché oggi abbiamo una parola che ci accomuna che è Covid, ma domani potrebbero essere anche altre.

Quanto le ricerche compiute fino ad oggi l’avevano preparata a quello che è accaduto?
In Inghilterra negli istituti di epidemiologia e salute pubblica si parlava di una pandemia incombente già nel 2000. Si facevano anche simulazioni, real time evaluation, modeling ad hoc e c’era una forte pressione per predisporre delle guidelines. Il problema è che tutte le infezioni sono diverse ed esiste un elemento imprescindibile di improvvisazione. Quello su cui ci si può preparare dunque è nel creare le connessioni utili per affrontare il problema. Se non puoi avere una risposta pronta, almeno così sai a chi chiederla. E questo network naturalmente occorre costruirlo in tempo di pace perché è difficile da improvvisare durante l’emergenza.

In questi mesi ci sono stati momenti di grande confusione e anche gli scienziati, dai virologi agli economisti, non sono sempre sembrati d’accordo tra loro. Esiste dunque sempre un fattore soggettivo nella ricerca? Come fa i conti lei personalmente con questo aspetto?
Io cerco sempre di farmi guidare dall’evidenza scientifica, dagli studi fatti, che sono il risultato di esperienza, lavoro e generalmente uno scrutinio serrato sulla validità e la riproducibilità dello stesso. Il sovrabbondare delle opinioni sui fatti è un fenomeno che non scopriamo con il Covid ma credo che anche in questo caso adottare un approccio multidisciplinare nelle discussioni, seppur impegnativo, possa portare solo risultati migliori: se il virologo si ferma dove finisce la sua competenza e passa la palla all’epidemiologo che poi coinvolge nella risposta il matematico, il demografo o l’economista, ecco che alla fine il circuito si chiude con un bilancio positivo per tutti. Non hanno risposto tutti su tutto ma hanno risposto tutti insieme. A questo aggiungo che dovremmo cominciare ad accettare che a una domanda si possa rispondere anche: “non lo so, devo verificare”. Non è una vergogna o una sconfitta; soprattutto nei modelli previsionali esiste sempre una zona d’ombra. Per la comunicazione e i media è un tabù, ma per chi fa ricerca l’incertezza è un parametro intorno al quale gravitano informazioni che ancora non si conoscono; non si deve avere paura di affrontarlo e, quando è il caso, di affermarlo.

Il suo lavoro di ricerca ha avuto spesso come destinatari i decision makers della politica. Come le sembra che sia stato il dialogo tra scienza e politica in occasione del Covid?
Il caso inglese è emblematico direi. A Londra hanno scienziati bravissimi, preparati da decenni per queste emergenze, eppure oggi sono il paese europeo con il più alto numero di morti. Non è solo colpa della politica, è anche un problema di comunicazione. Non è banale trasferire i risultati dell’analisi di un modello epidemiologico alla comunità, ai media o ai policy maker, è un passaggio fondamentale della catena che deve essere ottimizzato. Faccio un esempio: il monitoraggio dell’indice RT nelle regioni italiane non dovrebbe essere appannaggio dei media, ma sorvegliato attentamente da un comitato tecnico-scientifico, altrimenti si finisce per rincorrere dei dati che, presi singolarmente, non hanno valore e magari urlare all’emergenza appena c’è un numero sopra soglia. Un comitato competente, invece, potrebbe osservare una certa evidenza sul lungo periodo, individuare i segnali preoccupanti e passare delle indicazioni già ponderate a chi prende le decisioni.

Lei condivide l’idea che l’era Covid finirà quando sarà disponibile un vaccino sicuro e accessibile a tutti?
Stiamo assaporando pian piano il ritorno alla normalità ma, mi sembra, con una consapevolezza individuale diversa e questo dovrebbe aiutare. Il livello di immunità nella popolazione italiana è ancora molto basso, raggiunge alcuni picchi del 30-40% nelle aree ad alta prevalenza o nei gruppi di persone che sono stati esposti al virus, siamo ben lontani dal 60-70% di media nazionale necessario per stare tranquilli, però conosciamo meglio la malattia, interveniamo prima e in modo più efficace, facciamo contact tracing, insomma qualcosa stiamo imparando e questo mi rende ottimista.

 

CHI È ALESSIA MELEGARO
Laureata in Bocconi con una tesi sui modelli matematici applicati alla diffusione della tubercolosi, ha unito fin da subito nella sua ricerca la formazione economica con l’interesse verso la demografia quantitativa e il dialogo con l’epidemiologia. «Dopo il diploma mi sono spostata in Inghilterra», racconta la Melegaro, «dove ho completato il dottorato all’Università di Warwick e ho lavorato al Public Health England, l’equivalente del nostro ISS. Già allora lì era normale che il matematico e lo statistico parlassero con il clinico e l’immunologo». Rientrata nel 2008 in Bocconi, al centro Dondena, ha vinto un European Research Council Grant per coordinare il progetto DECIDE sull’impatto dei trend demografici nella diffusione delle malattie infettive con particolare riferimento ai paesi in via di sviluppo. «Questo percorso mi ha dato l’opportunità di approfondire la ricerca di modellistica applicata alla sanità integrandovi anche la parte demografica. Il lavoro con i paesi dell’Africa subsahariana, inoltre, ha unito allo studio anche forti motivazioni personali, un aspetto molto importante quando si fa ricerca sul campo».



di Emanuele Elli

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