Porre la creativita' al centro della magia del lusso
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Porre la creativita' al centro della magia del lusso

FRANCESCA BELLETTINI, ALUMNA BOCCONI E PRESIDENTE E CEO DI SAINT LAURENT, RACCONTA CHE PASSIONE, INTEGRITA' E TEAMWORK SONO GLI INGREDIENTI PER ESSERE UN CEO DI SUCCESSO

“Il mio sogno nel cassetto? È sempre stato quello di gestire un’azienda”. Detto, fatto. Francesca Bellettini, laureata in Bocconi nel 1994 e nominata Alumna dell’Anno 2018, è entrata in Saint Laurent come presidente e ceo nel 2013 ed è riuscita a far volare il brand oltre il miliardo e mezzo di euro di fatturato. Con una regolare crescita annua a doppia cifra, la manager ha portato la maison nell’Olimpo dei marchi del lusso più performanti. E si è persini meritata la più alta onorificenza francese, la Legion d'Onore, che le è stata consegnata il 29 gennaio, nel Municipio di Parigi, dal sindaco Anne Hidalgo. “Il mio segreto? Ho creato una cultura aziendale a sostegno della creatività, del sogno. Ma all’origine di tutto questo, c’è la mia personale esperienza in Bocconi”.
 
Lei è stata nominata Alumna Bocconi 2018 per aver interpretato al meglio i valori bocconiani, in quali si riconosce maggiormente?
Sicuramente nel valore della professionalità che implica integrità e responsabilità: non si può raggiungere un obiettivo solamente con lo scopo di far crescere il fatturato perché questo porterebbe nel medio-lungo periodo alla distruzione del brand, così come non si può scendere a compromessi se si ritiene che un trend di mercato non sia coerente con il posizionamento e il dna del marchio. A questo si deve aggiungere il cuore che consente a qualsiasi persona di fare la differenza. La passione è ciò che permette di raggiungere traguardi, di lavorare bene con gli altri e creare un team d’eccellenza: un ceo da solo non arriva da nessuna parte.
 
A proposito di integrità, che cosa ha respirato in Bocconi?
I professori credevano in questo valore e lo mettevano in pratica. In particolare, Mario Monti è stato un esempio concreto di integrità. Ho avuto la fortuna di frequentare il suo corso di Economia Politica e proprio in quell’anno è stato nominato rettore della Bocconi: non riuscendo a svolgere con lo stesso impegno entrambi gli incarichi, decise di lasciare il suo amato corso a un altro professore. Questo mi ha insegnato molto sui temi della correttezza, della coerenza e delle scelte.
 
Qual è stata la sua più grande soddisfazione in Bocconi?
La Bocconi non è stato un successo solo mio, ma di tutta la famiglia Bellettini che mi ha sempre stimolato a fare ciò che desideravo: volevo essere come Marisa Bellisario. Ricordo perfettamente lo sguardo di soddisfazione di mio padre nel giorno in cui mi sono laureata, quando sono passata con lui in mezzo ai leoni. Sono sicura che oggi, se ci fosse ancora, sarebbe altrettanto orgoglioso della mia nomina ad Alumna dell’Anno. Lui non mi ha dato un’azienda da gestire, ma la possibilità di laurearmi in Bocconi e di intraprendere una carriera di successo.
 
E poi, quali sono stati i vantaggi competitivi?
La Bocconi mi ha dato una formazione professionale completa e oggi continua a farlo con le nuove generazioni: ho potuto constatarlo attraverso l’esperienza di mia nipote. Ieri come oggi, la Bocconi è sempre all’avanguardia rispetto agli altri atenei e questo è sicuramente un vantaggio. Chi è in grado di sfruttare tutto ciò che offre quest’università, mette insieme un bagaglio di conoscenze unico. Alla mia epoca, per esempio, quando si è trattato di fare lo scambio all’estero, sono andata a Chicago dove ho potuto frequentare un Mba a cui erano iscritti studenti che avevano già maturato esperienze di lavoro: il mio quadrimestre negli Stati Uniti è stato molto più formativo di un tradizionale Erasmus e mi ha permesso di approcciare al mondo del lavoro con competenze maggiori rispetto a molti altri neolaureati.
 
Un bagaglio di competenze d’eccellenza stimola l’ambizione?
Sì, ma è necessaria anche l’umiltà. La Bocconi mi ha insegnato a partire dal basso per arrivare in cima. Appena laureata ho fatto uno stage in Citybank e il mio compito era quello di riclassificare i bilanci: un lavoro assolutamente ripetitivo, ma io avevo deciso che quella poteva essere un’opportunità per capire qualcosa in più sulle aziende che gravitavano intorno alla banca, così mi sono messa a leggere i bilanci. Quell’approccio positivo e propositivo ha fatto la differenza e mi ha aperto le porte di Goldman Sachs: ero capace di mettere passione anche in ciò che per la maggior parte delle persone risultava noioso.
 
Qual è il consiglio che darebbe a un giovane bocconiano, come sua nipote?
Valorizzare tutto ciò che la Bocconi può offrire, senza focalizzarsi solamente sugli esami e sui voti. Bisogna vivere l’università in maniera totalizzante, parlando con i professori, creando gruppi di scambio, partecipando attivamente alle lezioni. È fondamentale immergersi completamente in questa cultura, per imparare ad affrontare anche ciò che non piace.
 
E per quanto riguarda il piano di studi?
Il mio consiglio è quello di non scegliere solamente materie per cui si ha una predisposizione naturale, ma di mettere in programma anche esami di strategia che hanno il potere di aprire la testa e corsi su argomenti molto tecnici, come bilancio, perché possono tornare utili nel lavoro.
 
Come si diventa un bravo manager?
A parte le competenze specifiche, un buon manager deve essere curioso e saper costruire una squadra composta da persone diverse fra loro. La vera uguaglianza è il riconoscimento delle differenze: il bravo manager, come il bravo genitore, è colui che sa valorizzare le specificità dei singoli individui. Non è detto che tutti debbano fare una carriera verticale, perché esiste un valore anche per chi non è in prima linea. Tutto ciò però è possibile se si stabilisce un rapporto di fiducia e di grandissimo rispetto reciproco.
 
In un mondo che si trasforma così velocemente, come ci si rinnova?
Uno degli strumenti è proprio quello di restare sui banchi universitari: io spesso torno in Bocconi a parlare con gli studenti, ma anche a confrontarmi con i professori e con il rettore. È un onore poter far parte del board della Sda, così come di quello della Fondazione Kering e del comitato esecutivo di Kering. Sono occasioni di crescita straordinarie: mi consentono di discutere con persone molto differenti da me. La predisposizione all’ascolto è un formidabile strumento di apprendimento e quindi di trasformazione. Bisogna saper cambiare perché il mondo e la società sono in continua evoluzione.  
 
I giovani rappresentano proprio questa trasformazione. Alle volte si ha l’idea che le aziende del lusso puntino sulla fascia dei teen per creare una fetta di consumatori ancora prima che questa abbia l’età anagrafica per esserlo. È vero?
Assolutamente sì. Oggi i social media consentono di lavorare proprio in questa direzione. Io non credo che tutti i follower di Saint Laurent siano consumatori del brand, ma sicuramente ognuno di loro si sente vicino al marchio e aspira al sogno che trasmette. I giovani, in particolare, vogliono entrare in relazione con le case di moda e stabilire con queste un legame esclusivo. Il nostro compito è quello di creare contenuti che suscitino negli utenti un significativo grado di coinvolgimento, quello che si chiama engagement. Per fare tutto ciò, Saint Laurent usa i social media in maniera emozionale: il mood e l’estetica del brand diventano più incisivi del prodotto stesso. Al successo di questo processo ha contribuito in gran parte il nostro direttore creativo, Anthony Vaccarello, che è riuscito a far decollare l’account Instagram, passando da 350mila follower a oltre cinque milioni.
 
A proposito di Vaccarello, modernità e creatività sono strettamente connesse?
Nel lusso, essere moderni vuol dire mettere la creatività al centro. È un binomio imprescindibile quando si vendono sogni: quello sforzo in termini di spending che viene richiesto a chi compra un capo Saint Laurent è ripagato dalla soddisfazione di poter appartenere al quel mondo, a quell’incanto, appunto. Questa magia prende forma quando il direttore creativo è libero di esprimersi perché solo lui è capace di individuare e tradurre le aspirazioni delle persone: ecco perché ceo e stilista devono rispettarsi, affidarsi l’uno all’alto, prendersi per mano e fare il salto insieme.
 
 

di Ilaria De Bartolomeis

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