OPINIONI |

Quante cose devono cambiare per poter avere più di mille euro al mese

IN ITALIA I SALARI NETTI SONO TRA I PIù BASSI DEI PAESI INDUSTRIALIZZATI, MA LE TASSE SUL LAVORO TRA LE PIù ALTE, MENTRE LA PRODUTTIVITà NON TIENE IL PASSO DEI CONCORRENTI

di Francesco Daveri, ordinario di politica economica presso l’Università di Parma e docente dell’Area public management and policy della Sda Bocconi

Già prima della crisi lo stipendio netto di un lavoratore medio italiano non arrivava a 13 mila euro l’anno, poco più di mille euro al mese. Su questa base, l’Ocse concludeva che un lavoratore italiano è al ventitreesimo posto (su trenta) nella classifica degli stipendi dei paesi più ricchi del mondo. Ovviamente dietro alla Francia, alla Germania e al Regno Unito; un po’ meno ovviamente, dietro alla Spagna e, addirittura, alla Grecia. Peggio dei nostri lavoratori stanno portoghesi, messicani, turchi e pochi altri.

Vuol dire che, in Italia, della globalizzazione e di Internet ci siamo persi qualche cosa. Con la concorrenza dei paesi emergenti le cose si sono complicate per il Made in Italy. È diventato più difficile fare profitti con le scarpe e le cravatte, oltre che con le macchine per produrre la pasta.

Nello stesso tempo, la globalizzazione ha anche impietosamente messo a nudo la mancanza delle infrastrutture materiali e umane che consentirebbero all’Italia di fare il salto di qualità e di competere nei settori high-tech. Da qui, non dal Wto o dalla contraffazione dei capi di abbigliamento, vengono fuori i mille euro al mese a cui sono inchiodati gli stipendi dei lavoratori italiani.

Una delle stranezze italiane è che con stipendi tanto bassi le imprese si lamentino perché “in Italia il costo del lavoro è troppo elevato”. Hanno ragione tutti a lamentarsi, lavoratori e imprese. Ai lavoratori è lo stipendio netto dopo le tasse che interessa, per pagarsi il mutuo, la spesa al supermercato e le vacanze. E lo stipendio netto, non c’è dubbio, è basso rispetto a quello degli altri paesi. Per la competitività, tuttavia, non conta lo stipendio netto ma il costo del lavoro per unità di prodotto, che dipende dal salario al lordo delle imposte e dei contributi sociali e dalla produttività per occupato. Se le tasse sul lavoro e i contributi sociali sono alti e se la produttività del lavoro è relativamente bassa, ecco che il costo del lavoro può essere elevato, anche con salari netti molto bassi.

Se si guarda alle tasse sul lavoro (il cosiddetto “cuneo fiscale” ridotto dal governo Prodi), l’Italia occupa purtroppo un non invidiabile posto in alto nella classifica di tutti i paesi Ocse, il sesto, con il 46% del salario lordo che se ne va in tasse e altri contributi. Il cuneo fiscale è però inferiore in Italia rispetto a Germania e Francia. Quindi, se Germania e Francia sono più competitive dell’Italia sui mercati mondiali, non è per colpa delle tasse sul lavoro. Il gap di competitività con Francia e Germania deriva invece dalla minore produttività delle aziende italiane. Qui i dati parlano da soli: la produttività manifatturiera per occupato è vicina a 65 mila euro in Germania e Francia, mentre in Italia è solo 48 mila euro, cioè di un quarto più bassa. E la differenza non dipende dal fatto che i tedeschi sono bravi a fare frigoriferi e treni ad alta velocità, cioè beni a tecnologia intermedia o elevata, e gli italiani lo sono nel fare scarpe e cravatte, cioè beni tecnologicamente semplici: se si guarda dentro al settore manifatturiero con una lente di ingrandimento, ci si accorge che, settore per settore, la produttività tedesca e quella francese sono più elevate di quella italiana. Anche per scarpe e cravatte.

In conclusione, l’Italia ha perso competitività, ma bisogna imparare a distinguerne le cause. Quando ci confrontiamo con paesi meno sviluppati del nostro, le alte tasse sul lavoro dell’Italia sono una delle cause della perdita di competitività. Ma qui ci sono pochi margini: per riacquistare competitività su questo fronte, dovremmo rinunciare al nostro stato sociale. Se invece si parla di far salire gli stipendi degli italiani al livello dei tedeschi o dei francesi, il discorso è differente: è soprattutto il prodotto per addetto che deve aumentare. E qui ci vogliono quegli investimenti in infrastrutture fisiche e umane (scuola, università, logistica) che nei decenni passati la nostra classe dirigente non è riuscita a garantire.

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