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Relazione pericolosa

, di Tito Boeri - ordinario presso il Dipartimento di economia
L'interazione tra monopsonio e monopolio puo' avere effetti sui salari dei lavoratori cosi' come possono gonfiare le disuguaglianze nei livelli retributivi fra imprese e dipendenti. Per questo la presenza diffusa di clausole che riducono la mobilita' occupazionale dei lavoratori dovrebbe essere oggetto di attenzione dell'Antitrust anche in Italia

In un mercato del lavoro competitivo le singole imprese non hanno potere di mercato nei confronti dei loro dipendenti, non possono stabilire autonomamente le loro retribuzioni. Se pagassero i lavoratori meno che in altre imprese, questi cambierebbero datore di lavoro. In altre parole, le imprese che cercano di imporre salari più bassi finiscono per rimanere senza manodopera. Un numero crescente di studi empirici ha invece documentato che molte imprese, anche di medio-piccole dimensioni, hanno un rilevante potere di mercato nei confronti dei propri dipendenti e riescono a fissare i salari a livelli inferiori al valore del contributo che i lavoratori danno alla produzione, al di sotto cioè della produttività del lavoro misurata in termini monetari. Queste stesse imprese che riescono a fissare i salari, imponendo un markdown rispetto alla produttività del lavoro, finiscono anche per assumere meno lavoratori rispetto a quanto avrebbero fatto in un contesto competitivo. Le possibili fonti di questo potere di mercato, o potere di monopsonio, sono molteplici e vanno dalla concentrazione delle assunzioni in poche imprese, alla collusione dei datori di lavoro nel non fare offerte a lavoratori già occupati da altre imprese, dall'uso di varie disposizioni che limitano la mobilità dei lavoratori ai "search cost", alle frizioni presenti nel mercato del lavoro.

In un recente lavoro con Andrea Garnero e Lorenzo Luisetto abbiamo analizzato la presenza di patti di "non concorrenza" nei contratti di lavoro in Italia. Un patto di non concorrenza è un contratto, o una clausola di un contratto, in cui un dipendente si impegna a non fare concorrenza al datore di lavoro una volta terminato il contratto di lavoro. Nella maggior parte dei Paesi, i patti di non concorrenza sono ammessi (a determinate condizioni) e giustificati dalla necessità di proteggere segreti industriali e investimenti specifici nel rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro (come alcuni tipi di formazione e investimenti in specifiche conoscenze). Tuttavia, le clausole di non concorrenza possono anche essere utilizzate semplicemente per ridurre la mobilità dei lavoratori, limitando quindi le loro opportunità esterne e il loro potere contrattuale.
In Italia, le clausole di non concorrenza sono regolate dal Codice Civile, ma la legge prevede solo requisiti minimi, senza fornire un quadro dettagliato. Nel corso degli anni, la giurisprudenza ha chiarito alcuni aspetti ma, al di là del rispetto dei requisiti formali di base, i tribunali mantengono un significativo margine di discrezionalità nella valutazione di ciascun caso. Nonostante la loro importanza nel regolare molti aspetti dei rapporti di lavoro, i contratti collettivi sorprendentemente non svolgono alcun ruolo nella regolamentazione dell'uso delle clausole di non concorrenza in Italia.
Per capire la rilevanza delle clausole di non concorrenza nel mercato del lavoro italiano abbiamo svolto un'indagine su un campione di 2.000 dipendenti rappresentativo dei lavoratori del settore privato. La nostra indagine mostra che circa il 16% dei dipendenti del settore privato in Italia è vincolato da una clausola di non concorrenza, il che corrisponderebbe a circa 2 milioni di lavoratori. Più di un lavoratore su cinque ha accettato un patto di non concorrenza almeno una volta nella propria carriera. Questi accordi non sono limitati a professionisti o manager altamente qualificati o a lavoratori con accesso a informazioni riservate, ma sono molto più diffusi. Gli accordi di non concorrenza sono relativamente frequenti anche tra i lavoratori impiegati in occupazioni manuali ed elementari e tra quelli con un basso livello di istruzione e di retribuzione, anche senza accesso ad alcun tipo di informazione riservata. Le clausole di non concorrenza non sono l'unico strumento legale per regolare l'attività al termine del contratto: il 39% dei dipendenti del settore privato in Italia è coperto da un accordo di non divulgazione; il 12% da un accordo che assegna al datore di lavoro la proprietà di qualsiasi invenzione creata durante il rapporto di lavoro; l'11% da una clausola di non sollecitazione dei clienti; il 10% da una clausola di rimborso di benefit e bonus; l'8% da una clausola di non sollecitazione dei colleghi; e il 7% da una clausola di rimborso dei costi di formazione.
La probabilità di essere vincolati da un patto di non concorrenza è correlata negativamente con la concentrazione del mercato del lavoro locale, in particolare per i lavoratori mediamente qualificati. Ciò suggerisce che i patti di non concorrenza, in quanto strumento per limitare la concorrenza nel mercato del lavoro, sono meno importanti in un mercato del lavoro locale più concentrato, dove pochissime imprese concentrano su di sé la quasi totalità delle assunzioni.

Analizzando il contenuto delle clausole di non concorrenza, più della metà non sembra rispettare i requisiti minimi stabiliti dalla legge, ossia specificare un corrispettivo e dei limiti temporali, settoriali e geografici. Ciò significa che una buona parte delle clausole è probabilmente nulla, quindi non applicabile, non eseguibile, da un giudice e/o che i lavoratori non sono consapevoli del loro contenuto (anche quelli che sono sicuri di averne firmata una e dichiarano di averla letta attentamente prima di firmarla). Allo stesso tempo però, poiché non vi è correlazione tra la percezione del rischio di essere portati in tribunale e di essere ritenuti colpevoli da un giudice e la probabile applicabilità della clausola, le clausole di non concorrenza possono avere degli effetti deterrenti sulla mobilità del lavoro anche quando non sono applicabili.
La maggior parte dei lavoratori attualmente vincolati da una clausola di non concorrenza è venuta a conoscenza della clausola prima dell'inizio del lavoro, al momento della firma del contratto (40%) o anche prima, quando al lavoratore è stato offerto il lavoro (28%). Tuttavia, il 15% delle clausole è stato introdotto dopo la firma del contratto, ma in cambio di una promozione, di un aumento di stipendio o di un incremento delle responsabilità, mentre il 5,6% è stato introdotto dopo la firma del contratto senza alcun cambiamento nelle mansioni lavorative svolte. Tra i lavoratori vincolati da un patto di non concorrenza, il 44% lo ha letto molto attentamente prima di firmarlo, mentre il 28% lo ha letto solo velocemente. Soltanto il 21% dei dipendenti con un patto di non concorrenza ha cercato di negoziarlo. La maggior parte dei dipendenti non ha cercato di negoziarlo perché lo riteneva ragionevole o dava per scontato che la clausola non fosse negoziabile.
Prima di questa indagine, l'unica evidenza disponibile in Italia sull'utilizzo e sulle caratteristiche delle clausole di non concorrenza era basata sulla giurisprudenza. Dato il numero limitato di processi, che riguardano essenzialmente lavoratori altamente qualificati, ciò suggeriva che il fenomeno fosse relativamente circoscritto e di scarso interesse. Tuttavia, come è noto nella letteratura di analisi economica del diritto, gli esiti dei processi non sono rappresentativi della popolazione dei casi e forniscono informazioni parziali poiché solo un sotto-campione di essi, spesso molto selezionati, arriva in tribunale.
L'evidenza che emerge dall'indagine suggerisce che, a causa di un mix tra abusi da parte dei datori di lavoro e scarsa consapevolezza da parte dei lavoratori, in un numero non banale di casi le clausole di non concorrenza possono generare distorsioni nel mercato del lavoro, limitando ulteriormente la mobilità dei lavoratori, già relativamente bassa in Italia rispetto agli standard internazionali. Sarebbe quindi possibile promuovere un uso più bilanciato delle clausole di non concorrenza, migliorando la trasparenza e l'equità del processo di negoziazione senza imporre un onere eccessivo ai datori di lavoro o impedire loro di proteggere i propri legittimi interessi commerciali.

La presenza diffusa di clausole che riducono la mobilità occupazionale dei lavoratori dovrebbe essere oggetto di attenzione anche parte dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Si sostiene spesso che l'Antitrust debba occuparsi solo della concorrenza nel mercato dei prodotti, ma esistono forti interrelazioni fra monopolio e monopsonio, potere di mercato nel mercato dei prodotti e nel mercato del lavoro. Queste interazioni operano in genere abbassando ulteriormente i salari rispetto a quanto avverrebbe in un'impresa che ha potere di monopolio solo nel mercato del lavoro perché la mancata concorrenza nel mercato dei prodotti riduce le quantità prodotte e, dunque, il numero di lavoratori assunti, esercitando un ulteriore effetto negativo sui salari. Al tempo stesso in condizioni di monopsonio le imprese monopolistiche possono ridurre ulteriormente l'offerta e, per data domanda, questo comporta un aumento dei prezzi dei beni finali. Inoltre le interazioni fra potere di mercato nei due ambiti possono gonfiare le disuguaglianze nei livelli retributivi fra imprese e lavoratori ponendo problemi non solo di equità, ma anche di efficienza in presenza di una ridotta mobilità dei lavoratori. Infine i due poteri di mercato possono alimentarsi a vicenda, ad esempio favorendo comportamenti collusivi del tipo di accordi tra imprese per non sottrarsi a vicenda lavoratori (no-poaching agreements), portando a maggiore concentrazione in entrambi gli ambiti. Per questo le autorità antitrust statunitensi hanno emanato linee guida in materia e iniziato a monitorare con più attenzione le concentrazioni fra imprese che prima dell'operazione erano concorrenti sul mercato. Per questo anche qualche Antitrust europeo (ad esempio l'Autorità per la Concorrenza portoghese) si è di recente occupata delle clausole che limitano la mobilità dei lavoratori. Nondimeno, le linee guida della Commissione Europea in materia di accordi collettivi tra lavoratori autonomi chiariscono (seppur indirettamente) che gli accordi di non assunzione dei rispettivi dipendenti (no-poaching agreements) e di fissazione dei salari (wage-fixing) sono illegittimi. È tempo che anche in Italia il problema venga affrontato e i contratti collettivi entrino nel merito della questione invece di continuare ad ignorarla.