Disuguaglianza e riforma fiscale
OPINIONI |

Disuguaglianza e riforma fiscale

INTRODURRE LA FLAT TAX NON SIGNIFICA RIDURRE LA PRESSIONE FISCALE. ANZI, RIDURRE LA PROGRESSIVITA' AUMENTA LE DISUGUAGLIANZE

di Guido Alfani, professore ordinario di Storia economica

Un po’ ovunque in Occidente, le proposte di riforma fiscale sono tor nate al centro del dibattito. Un elemento ricorrente di tali proposte è la riduzione delle aliquote che gravano sui contribuenti più abbienti. In Inghilterra, il nuovo governo guidato da Liz Truss intende ridurre l’aliquota massima dell’imposta personale sul reddito dall’attuale 45% al 40%. Ritocchi alle aliquote più basse non alterano il fatto che la riforma beneficerà i ricchi molto più del resto della popolazione britannica. In Italia, una parte almeno del centrodestra rimane fedele alla battaglia per la “flat tax”, inizialmente da applicarsi solo a specifiche categorie di contribuenti ma (almeno nelle promesse elettorali) da estendere progressivamente anche ad altri.
Partiamo da un chiarimento: ridurre l’aliquota massima dell’imposta personale sul reddito o introdurre una flat tax non è sinonimo di riduzione della pressione fiscale. Infatti, modificando in modo appropriato le aliquote è tecnicamente possibile ridurre la pressione fiscale per tutti e al tempo stesso aumentare la progressività del prelievo. La vera domanda, quindi, non è perché si proponga di ridurre le tasse (cosa che, in linea di principio, potrebbe essere motivata come intervento a favore della crescita economica), ma perché lo si voglia fare riducendo la progressività del sistema fiscale. La domanda è particolarmente rilevante poiché non vi è alcuna evidenza empirica che una riduzione della progressività del prelievo fornisca uno stimolo apprezzabile all’economia. Vi sono invece numerosi studi che suggeriscono che vi sia un rapporto causale tra la riduzione della progressività dei sistemi fiscali occidentali, e la tendenza alla crescita della disuguaglianza di reddito e ricchezza osservata negli ultimi decenni.

Per comprendere appieno la natura del problema è utile provare a ricostruire le origini dell’idea che la tassazione debba essere il più piatta possibile. L’imposta sul reddito personale è la principale innovazione fiscale dell’età contemporanea. Nonostante qualche tentativo precoce (e subito abbandonato per difficoltà pratiche) in Olanda, solitamente si ritiene che il primo esempio moderno risalga al 1799, quando la Gran Bretagna riuscì a convincere i propri cittadini che era necessaria per finanziare la guerra contro Napoleone. Si trattava di un’imposta fortemente progressiva, visto che la pagavano solo i più ricchi, ma temporanea: il governo britannico aveva dovuto impegnarsi a eliminarla alla fine della guerra, e così fece nel 1816. La nuova imposta, però, si era rivelata molto utile a rafforzare la capacità fiscale dello Stato e, di conseguenza, la sua capacità d’intervento in vari ambiti. È per questa ragione che la Gran Bretagna la reintrodusse nel 1842, venendo poi imitata da tutti i Paesi occidentali.
Se originariamente era limitata ai più ricchi, col tempo l’imposta personale sul reddito divenne universale, ovvero pagata da tutti o quasi. L’allargamento delle richieste ai cittadini a contribuire andò di pari passo con l’estensione di alcuni diritti, tra cui quello di voto, ma l’impostazione rimase decisamente progressiva, ovvero con aliquote crescenti rispetto al reddito. È interessante osservare che il carattere di forte progressività dell’imposta sul reddito non era sostanzialmente contestato da nessuno: a fine Ottocento, e per tutta la prima parte del Novecento, la progressività dell’imposta sul reddito fu anzi rafforzata con il concorso di tutte le forze politiche, e certamente non solo quelle “di sinistra”.  Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, in alcuni Paesi (tra cui Stati Uniti e Gran Bretagna) l’aliquota massima dell’imposta personale sul reddito era dell’ordine del 90%. Ancora attorno al 1975, in Gran Bretagna l’aliquota massima era dell’83%, negli Stati Uniti era del 70% e in Italia del 72%. Si trattava solo del punto estremo di un sistema complesso, che prevedeva nei tre Paesi, rispettivamente, 10, 25 e 32 scaglioni d’imposizione. In effetti, l’imposta personale sul reddito era divenuta forse troppo complessa, come notato all’epoca da molti economisti. L’eccessiva complessità poteva tradursi potenzialmente in inefficienza e anche in ingiustizia. È rispetto a questa situazione che alcuni argomentarono che una tassa piatta con una sola aliquota, più magari un’area di esenzione per i redditi più bassi, sarebbe stata preferibile.

Negli Stati Uniti, l’idea di flat tax fu abbracciata dai Repubblicani del presidente Reagan e ispirò le riforme fiscali degli anni ’80, che portarono le aliquote a due e ridussero quella massima al 28%. In seguito si fece parzialmente retromarcia: oggi i cittadini americani sono soggetti a sette aliquote, con la massima al 37%. Dagli Stati Uniti, l’idea di semplificare il sistema fiscale e contestualmente ridurre le aliquote massime si diffuse nel resto dell’Occidente, caratterizzando in particolare le agende politiche dei partiti di centro-destra. In Gran Bretagna, nel 1988 il governo Thatcher ridusse gli scaglioni a due, con un’aliquota massima del 40%; anche in questo caso si fece poi una parziale retromarcia, ma senza tornare neanche lontanamente ai livelli di progressività dei decenni precedenti. Oggi, un po’ ovunque la struttura dell’imposta sul reddito è divenuta più semplice di quanto non sia mai stata; in Italia, ad esempio, vi sono solo quattro scaglioni con un’aliquota massima del 43%, mentre in Gran Bretagna vi sono solo quattro scaglioni (inclusa una no-tax area) con un’aliquota massima del 45% (quella che il governo Truss vorrebbe eliminare, tornando ai livelli dell’era Thatcher). L’obiettivo di semplificare il sistema, insomma, è già stato raggiunto; se la semplicità davvero porta di per sé a benefici, è ragionevole pensare che ne stiamo già godendo. Come notato in apertura, non vi sono prove che una riduzione ulteriore dell’aliquota massima stimolerebbe di per sé l’economia (lo potrebbe fare come parte di un progetto di riduzione della pressione fiscale complessivo, e quindi non in quanto tale – progetto che però, nel contesto attuale, sarebbe rischiosissimo portare avanti senza opportune coperture economiche, come le turbolenze finanziarie seguite agli annunci del governo britannico dimostrano chiaramente).

Ogni proposta (esplicita o implicita) di riduzione della progressività dell’imposizione personale sul reddito, poi, contrasta direttamente con quella che, nella storia dell’Occidente, è una specifica attesa da parte della società ne suo insieme nei confronti dei ricchi. Sin dal Medioevo, l’idea che in tempi di crisi sia legittimo chiedere ai ricchi di contribuire di più è rimasta una costante della cultura occidentale. In tempi più o meno recenti, un buon esempio è il New Deal del presidente americano Roosevelt, che contribuì a porre fine alla Grande Depressione e fu finanziato anche introducendo una tassazione fortemente progressiva su redditi e patrimoni. Nel ventunesimo secolo, però, sembra essere divenuto politicamente assai difficile tassare i ricchi. Negli Stati Uniti, tutte le proposte dell’amministrazione Biden in tal senso si sono scontrate con l’ostilità del Congresso. In Gran Bretagna il nuovo governo, come visto, sembra volersi muovere in direzione opposta, riducendo la pressione fiscale in misura maggiore per i ricchi che per tutti gli altri. In Italia, il governo Draghi si è puntualmente confrontato con un veto di fronte a qualsiasi intervento potesse anche solo adombrare un futuro aumento del prelievo a carico dei più abbienti (si veda ad esempio la -abortita- riforma del catasto), e pare difficile immaginare che il nuovo governo che sta per insediarsi cambierà rotta su questo tema.

Questa riluttanza a far contribuire i ricchi, anzi possibilmente a favorirli sul fronte fiscale, è storicamente ancor più bizzarra se si considera che le crisi del ventunesimo secolo sono state eccezionalmente generose nei loro confronti, danneggiando proporzionalmente di più i poveri. In Italia, durante la Grande Recessione del 2007-09 e la crisi del debito sovrano del 2010-11 la quota di ricchezza dell’1% più ricco è cresciuta: dal 17% del 2007 al 19% del 2012. Negli Stati Uniti, nello stesso periodo la quota di ricchezza dell’1% più ricco è salita dal 36% al 42%. Anche la crisi causata da Covid-19 ha risparmiato (relativamente) i più abbienti, e questo un po’ ovunque in Occidente. Data la situazione, sembrerebbe opportuno portare gli effetti distributivi delle proposte al centro di ogni dibattito sulla riforma fiscale – invece di considerarli, come pare essere la tendenza attuale, al più una glossa rispetto ai (presunti) benefici per l’economia nel suo insieme.  

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