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Processi lenti? Ripartiamo dagli avvocati

, di Cesare Cavallini - ordinario presso il Dipartimento di studi giuridici
Per ripensare la giustizia civile non basta riscrivere le regole processuali ma va rivisto il meccanismo di accesso alla professione

Emerge periodicamente nella coscienza sociale e nella realtà quotidiana dei cittadini e delle imprese l'annoso e ormai (ritenuto) irrisolvibile problema della lentezza irragionevole della giustizia civile, come causa non secondaria di inefficienza del sistema paese e di ritardo dello sviluppo economico, soprattutto nel contesto storico caratterizzato da una crisi economica fisiologicamente quasi permanente.
Il problema si desta periodicamente quasi come memento della sempre parziale attenzione riservata dalle istituzioni deputate ad affrontarlo e possibilmente a risolverlo. Va detto, con molta franchezza, che sono state percorse varie strade, su vari fronti. Si è così assistito recentemente a una progressiva seppur a tratti alluvionale produzione legislativa riformatrice delle regole processuali, volte sostanzialmente, a vari livelli, a ridurre i tempi di formazione della decisione definitiva: tra cui si segnalano l'introduzione di strumenti di prevenzione conciliativa della lite e di composizione indotta delle liti già pendenti, la semplificazione e la specializzazione dei modelli procedimentali per peculiari tipologie di controversie, l'opinabile anche se necessaria rastremazione dell'accesso ai controlli delle sentenze, indirettamente volto a favorire l'accelerazione dei tempi di formazione della decisione giudiziale definitiva. E si è nondimeno proceduto a introdurre sanzioni pecuniarie (direttamente sui cittadini e sulle imprese) che hanno, per effetto del tenore della decisione, condotto o resistito in un processo che non si doveva fare o non si doveva proseguire, come una sorta di misura repressiva con effetti preventivi di disincentivo ad alimentare i contenziosi civili.

Di per sé, considerate una ad una, queste recenti misure volte a velocizzare la giustizia civile appaiono - al netto di sempre possibili fine tuning normativi, per tanti aspetti centrate e financo necessarie. In una diversa prospettiva sistemica, volta più a regolamentare il presente per il futuro, e non a rimediare (spesso vanamente) gli errori del passato, appaiono invero frutto di una visione parziale del cuore del problema. Che nasce e si alimenta ben prima e ben lontano dalle regole del processo e dalla smania a tratti protagonista di cambiarle per cambiarle, ingenerando innanzitutto incertezza tra gli operatori giuridici.
Seguendo una schematizzazione, si delinea un'allarmante equazione tra la proliferazione del numero delle controversie civili e la proliferazione incontrollata del numero degli avvocati, giustamente non corrisposta dal numero dei componenti la magistratura. Con un'equazione di secondo grado, contrariamente a qualsivoglia modello comparatistico serio, europeo o di matrice anglosassone, l'accesso e l'uscita dalle law schools italiane non costituisce alcun filtro, preventivo e soprattutto successivo, sull'accesso alla professione legale, la cui regolamentazione d'ordine si è concentrata sul mercato della formazione continua e non su quello delle regole di accesso a quel mercato, di cui la formazione ex post sembra tradire, inconsapevolmente, una riconosciuta carenza ex ante.

In definitiva, una visione prospettica sulla giustizia civile e sul ruolo del giurista come indefettibile componente dello sviluppo economico e del suo adeguamento ai nuovi bisogni ed alle nuove realtà deve passare dalla presa di coscienza di un rinnovato approccio all'accesso dell'avvocatura come epilogo, e non come improvvisata partenza, di una cultura che parte dalle law schools, dai contenuti seri e anche funzionali da queste dati agli studenti, e dalle sue stesse regole di accesso, ormai anacronisticamente «libere» per effetto di una malintesa libertà di accesso come espressione del diritto allo studio. Regole che in qualche misura conferiscano alle law schools il ruolo di primo filtro.
Solo in seguito, forse, si potrà ritornare alle regole del processo, quelle essenziali, senza affannarsi a diventare sterili studiosi e pratici del «combinato disposto».