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Lavorare di piu' per le casse e la salute

, di Vincenzo Galasso - professore di economia, direttore del Dipartimento di Scienze sociali e politiche, Universita' Bocconi
In futuro dovranno cambiare gli automatismi salariali e le politiche del personale se si vorranno salvare i conti pubblici e migliorare il benessere degli anziani attivi

Per alcuni decenni all'allungamento della vita biologica si è accompagnato l'accorciamento della vita lavorativa. Dagli anni Sessanta infatti viviamo più a lungo, eppure andiamo in pensione prima. Questi due fenomeni hanno creato non pochi problemi per le finanze pubbliche, in particolare per la spesa previdenziale. E così, a partire dalla fine degli anni Novanta, molti paesi europei, tra cui anche l'Italia, hanno riformato il sistema previdenziale per ottenere – lentamente ma inesorabilmente – un aumento dell'età di pensionamento.

Il modus operandi comune di queste riforme è stato di ridurre la generosità dei benefici previdenziali in caso di pre-pensionamento e di aumentare l'età minima di pensionamento. In perfetta sintonia con i risultati delle ricerche scientifiche degli ultimi venti anni, che hanno analizzato le motivazione finanziarie, familiari e di salute dei pensionandi, si è agito quindi dal lato dell'offerta di lavoro, attraverso una drastica riduzione degli incentivi per i lavoratori anziani ad andare in pensione appena possibile.
Tuttavia, non sempre la scelta di lasciare il posto di lavoro prima dell'età normale di pensionamento è da attribuire al lavoratore. In alcuni casi sono gli stessi datori di lavoro ad indurre i lavoratori ad andare in pensione appena possibile.
In economie caratterizzate da profili salariali per età crescenti, i lavoratori anziani (ad esempio oltre i 55 anni) possono rappresentare per l'impresa un costo del lavoro ingente, a cui non sempre si accompagna un'elevata produttività. Le imprese hanno quindi un forte interesse a spingere i lavoratori anziani meno produttivi verso il pensionamento anticipato, soprattutto se il mercato del lavoro è sufficientemente rigido da non consentirne il licenziamento.
L'introduzione, negli anni Settanta e Ottanta, di generosi schemi di prepensionamento pubblico aveva quindi il pregio di mettere d'accordo lavoratori, sindacati ed imprese – scaricando tuttavia i costi sulla collettività, ovvero sui contribuenti fiscali. Come evidenziato da recenti studi, questo meccanismo era in atto persino in paesi caratterizzati da un mercato del lavoro flessibile e da una previdenza complementare sviluppata, come ad esempio in Svizzera, dove le imprese hanno preferito far leva sul pre-pensionamento per ottenere un ringiovanimento della forza lavoro ed un aumento della competitività.

Ma cosa accadrà nei prossimi decenni, quando la forza lavoro invecchierà sostanzialmente, e molti baby-boomer si ritroveranno prossimi alla pensione? Come faranno le imprese, non potendo ricorrere ai pensionamenti anticipati, a gestire un personale ingrigito, costoso e possibilmente anche poco produttivo? Le dinamiche demografiche impongono un cambio di paradigma sia per i lavoratori che per le imprese.
Studi recenti mostrano infatti che la produttività dei lavoratori anziani può rimanere elevata, e che a beneficiarne sono soprattutto i lavoratori stessi. Infatti, continuare a lavorare può rappresentare un antidoto per frenare l'inevitabile riduzione delle capacità cognitive, quali la memoria, le capacità dialettiche ed analitiche. Ma le imprese dovranno imparare a gestire le loro pantere grigie. Le più illuminate hanno già messo in piedi programmi interni per aiutare i lavoratori a conservare la forma fisica anche con il passare degli anni. Tuttavia, oltre a mantenere la produttività dei lavoratori anziani, sarà necessario anche rivederne il costo del lavoro, che in molti paesi europei aumenta con la seniority. La difficile battaglia su questo fronte è solo agli inizi.