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Via Sarfatti 25 festeggia il compleanno dell'Italia

SPEGNIAMO LE 150 CANDELINE DELL'UNITÀ D'ITALIA A NOSTRO MODO: PROPONENDOVI 15 RIFLESSIONI SULLA NOSTRA STORIA SUL PROSSIMO NUMERO DEL GIORNALE. E, IN ANTEPRIMA, VI ANTICIPIAMO IL PEZZO DI APERTURA

Domani il nostro paese festeggia 150 anni di unità. Anche Via Sarfatti 25 ha deciso di celebrare la festa con un foglio quasi interamente dedicato all’evento, il prossimo numero di aprile: 15 articoli scritti dai nostri docenti, di cui vi anticipiamo l’apertura qui di seguito, a firma di Andrea Colli, professore associato di storia economica dell’industria.
 

La redazione

 

Storia controfattuale. Che ne sarebbe degli italiani se nel 1861 non fosse stata fatta l’Italia
Zattera di povertà nel Mediterraneo
L’unificazione ha indubbiamente avuto dei costi, ma ha evitato guai peggiori tanto al Nord, quanto al Sud

Gli storici dovrebbero attenersi ai fatti. Ma talvolta anche loro si prendono qualche libertà, divertendosi a immaginare scenari alternativi a quelli accaduti. Si chiama “storia controfattuale”, e ha goduto di una certa fortuna negli anni Sessanta. A volte considerata come puro divertissement, può però essere utile ad apprezzare meglio la natura del presente. Come, ad esempio, il processo di sviluppo economico italiano a centocinquant’anni dall’unificazione politica del paese.
 
Nota nelle sue linee generali, e nonostante qualche divergenza interpretativa, la storia economica dell’Italia unita ha visto susseguirsi cinque fasi rilevanti: quella immediatamente successiva all’unificazione (l’Italia agricola, liberista e intenta a dotarsi di infrastrutture fisiche, amministrative e istituzionali); quella del primo grande balzo nella crescita industriale (dalla fine degli anni ’80 dell’Ottocento alla prima guerra mondiale), quando da paese agricolo e periferico, l’Italia si trasforma in una delle prime dieci economie industriali del mondo; quella degli anni tra le due guerre, che vede affermarsi i settori di produzione di massa e un primo timido, poi sempre più deciso, controllo pubblico sull’economia; quella dei venti anni seguiti al periodo della ricostruzione, gli anni del miracolo economico che vedono la definitiva modernizzazione, economica ma soprattutto sociale; quella della crisi, delle ristrutturazioni e infine delle privatizzazioni tra gli anni Ottanta e oggi, con l’emergere delle energie a lungo nascoste delle piccole imprese e dei distretti.
 
Su tutto, però, l’allungarsi di una serie di ombre: un persistente divario tra Nord e Sud e un modello di industrializzazione in cui i settori tecnologicamente più avanzati restano grandi assenti. Tuttavia, è facile dimenticarsi che nel giro di qualche decennio dopo l’unificazione, l’Italia aveva abbandonato quella che Carlo Cipolla definì la “carriera di paese sottosviluppato d’Europa” ed era diventata un paese capace di esprimere imprese come la Fiat, la Pirelli, l’Olivetti, avviando un percorso di crescita che l’avrebbe prima avvicinata al livello di ricchezza dei paesi più avanzati del continente, poi, dopo il secondo conflitto, a quella degli Stati Uniti.
 
Tutto ineluttabile? Ovviamente sì, visto che la storia è andata così. Ha contribuito quell’evento storico unico, l’Unificazione, a innescare tale processo? Non lo sapremo mai, ma è probabile di sì. Forse l’immaginazione dello storico “controfattuale” può in questo caso essere d’aiuto.
 
Proviamo a immaginare cosa sarebbe successo all’economia della “mera espressione geografica” se i Mille, falcidiati da un’epidemia di colera, fossero stati massacrati dall’esercito borbone e Cavour avesse deciso di desistere dal progetto, dato che i banchieri ginevrini avevano deciso di impiegar meglio i loro quattrini che nel finanziare le politiche espansive di una rozza casa regnante montanara.
 
Sicuramente non pochi problemi e sprechi sarebbero stati evitati, qualcuno potrebbe dire (ed è stato detto). Come il brigantaggio; l’intervento straordinario a inizio Novecento; la Cassa per il Mezzogiorno; i continui interventi per lo sviluppo, alcuni intrapresi con l’unico esito di distruggere un vivido tessuto di imprenditorialità locale nelle regioni meridionali. In fondo, nel 1861 le due parti del nuovo paese si integravano ben poco: il Nord non aveva bisogno del Sud e viceversa. Non esistevano materie prime al Sud che interessassero le industrie del Nord, né fonti energetiche, né risorse finanziarie, nemmeno la manodopera. I mercati di sbocco delle industrie settentrionali (soprattutto la seta grezza) erano in Europa centrale, in Francia e Germania. Il Sud vendeva oli, agrumi, zolfo, vini e minerali in Inghilterra e Francia, non al Nord. Insomma, l’Italia non era l’Inghilterra, o la Germania, in cui il processo di unificazione economica era stato così potente da imporre alla fine l’unificazione politica.
 
E allora immaginiamo uno scenario diverso. Niente unificazione. La crisi agraria degli anni Settanta dell’Ottocento, quando il prezzo del grano era crollato sui mercati internazionali, si sarebbe abbattuta in maniera diversa a Nord e a Sud, ma comunque devastante. Morte per fame su vasta scala nel Meridione dominato dalle colture granarie estensive, ed emigrazione, forse verso il Settentrione (che però fronteggiava problemi analoghi), ancor più di massa di quanto si verificò in realtà. Inasprimento del brigantaggio, stavolta per ragioni diverse: la fame. Qualche rivoluzione, forse, qualche Gattopardo impiccato da contadini inferociti. E una povertà a livelli sub sahariani. Al Nord, la base manifatturiera non avrebbe potuto sostenere la crisi delle campagne. Anche lì, emigrazione e xenofobia contro altri morti di fame (i contadini del Sud non unificato che fuggivano dalla povertà). Tensioni, che avrebbero accentuato la dipendenza del Nord, e in particolare Piemonte e Lombardia, dalle potenze centrali. Il Piemonte sempre più attratto dalla Francia, la Lombardia dalla Germania. Il Veneto sarebbe rimasto saldamente all’Austria. Il Po sarebbe stato il limes, anche linguistico, e l’Africa settentrionale avrebbe spostato il proprio confine vero, quello del reddito procapite, svariate centinaia di chilometri più a nord. Ovviamente, non vi sarebbe stato il “pactum sceleris” che legava gli agrari del Sud agli industriali del Nord, quello che fece sì che dagli anni Ottanta dell’Ottocento l’Italia fosse difesa da barriere doganali che consentirono lo sviluppo di meccanica e siderurgia. Fiat e Pirelli, Falck, Montecatini e Edison sarebbero nate, probabilmente. Non vi sono limiti al genio imprenditoriale: il mercato del Nord era per il momento sufficiente. Ma sarebbero rimaste piccole, adatte a una domanda ristretta. Certo, le banche sarebbero state molto più piccole, locali, popolari. Forse meno vulnerabili, forse di più. Sicuramente non vi sarebbero state né Comit, né Credit. Di certo, non vi sarebbero stati programmi di infrastrutture su vasta scala attuati con rapidità. Nessuna Società per le Strade Ferrate Meridionali (Bastogi). Troppi confini da attraversare, gabelle e tasse da pagare. Forse anche standard diversi negli scartamenti delle rotaie.
 
Ovviamente, la mancata unificazione avrebbe evitato al paese la prima guerra mondiale: non ve n’erano i presupposti. E forse gli oltre seicentomila morti e l’orrore delle trincee, delle granate shrapnel e dei gas. Ma con ciò sarebbero mancate alcune cose: la modernizzazione industriale (la guerra era, per Luigi Einaudi, “di materiali e d’industria”), ma anche la vera unificazione linguistica, di contadini del Sud e del Nord costretti nelle trincee a usare l’italiano per capirsi e non morire. Senza Prima guerra mondiale niente dittatura fascista, ma niente opere pubbliche e primi albori di welfare. La crisi dei primi anni Trenta avrebbe provocato il rientro dei capitali stranieri investiti nel settore manifatturiero e finanziario di Piemonte, Veneto e Lombardia, le appendici coloniali degli imperi centrali, senza che vi fosse un’entità statale sufficientemente dotata di risorse che potesse creare un Iri piemontese, o lombarda, che salvasse quel poco di industria rimasta in piedi. Una crisi devastante. Chissà che sarebbe successo nel corso della seconda guerra mondiale, e che situazione avrebbero trovato gli alleati risalendo quel “deserto dei Tartari” punteggiato da qualche rudere romano, per arrivare alla linea Gotica. Di sicuro i lombardi, vassalli della Germania, avrebbero dovuto massacrarsi coi vassalli della Francia sulle sponde del Ticino.
 
Ovviamente, poi, nessun miracolo economico: ammesso e non concesso che le nostre Fiat, Pirelli, Falck avessero resistito alla concorrenza francese e tedesca fino agli anni Cinquanta (erano pur sempre in paesi, o forse province, periferiche), e che si fosse innescato un meccanismo di crescita (probabilmente impossibile senza l’Iri e l’Eni), non avrebbero potuto fruire della manodopera a basso costo di un Sud devastato, svuotato dall’emigrazione e sempre più lontano. Una zattera di povertà nell’abbacinante Mediterraneo. Forse le scene che accadono al confine tra Stati Uniti e Messico oggi non ci sarebbero tanto sconosciute. E come Spagna, Grecia e Balcani, anche la “non-Italia” avrebbe proseguito nella sua carriera di paese sottosviluppato dell’Europa mediterranea (ma… ci sarebbe stata l’Europa?).
 
Potremmo procedere oltre, ma credo basti per capire quanto il costo economico e sociale, nel lungo periodo, di una mancata unificazione avrebbe pesato sulle regioni di una non-Italia, tanto quelle del Sud, quanto quelle del Nord. Il 17 marzo varrà forse la pena non solo di riflettere su cosa l’unificazione non ha risolto. Ma su quanto, grazie ad essa, si è potuto evitare.


di Andrea Colli, professore associato di storia economica dell'industria alla Bocconi

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