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Le due carriere di Gallinari

, di Davide Ripamonti
Nell'Olimpia Milano ha vinto 4 scudetti, 1 Coppa dei Campioni, 1 Coppa delle Coppe, 1 Coppa Korac e 2 Coppe Italia. Ma si e' anche laureato in Bocconi e oggi e' un apprezzato agente di giocatori. Che vanno rassicurati nonostante il lockdown

Vittorio Gallinari era l'uomo delle missioni impossibili. C'era nell'altra squadra un giocatore particolarmente temuto? Se ne occupava lui. Oppure, durante la partita, un avversario sembrava immarcabile e segnava da ogni distanza? Dan Peterson si volgeva verso la panchina e chiamava il Gallo, come compagni, tifosi e il coach stesso l'avevano soprannominato. E lui quasi sempre assolveva il compito. Era quello che potremmo definire un "gregario di lusso" e del resto, se in squadra hai campioni come Mike D'Antoni, Bob McAdoo e Dino Meneghin, ti tocca stare nell'ombra. Non meno importante di loro, però. Il talento dei fuoriclasse l'ha lasciato a suo figlio Danilo, un passato come il padre nell'Olimpia Milano e adesso star nell'Nba.

Vittorio Gallinari è oggi un agente di giocatori, professione che gli permette di conciliare il suo passato di atleta con la laurea conseguita in Bocconi e per la quale, a un certo punto, stava per lasciare il basket. "Furono Dan Peterson e D'Antoni a convincermi che non dovevo lasciare. E il coach mi fece parecchie concessioni per permettermi di studiare". Come tutti, Gallinari sta vivendo nella sua professione un momento particolare, difficile, senza chiarezza per il futuro.

"Quando si pensa allo sport professionistico di solito il riferimento sono i grandi campioni, le star dai contratti milionari. Quelli che possono non risentire troppo da un punto di vista economico del lockdown. Ma ci sono molti giocatori, soprattutto nelle serie minori, per i quali perdere lo stipendio, o parte di esso, ha riflessi pesanti. Sono questi quelli che ho cercato di tutelare maggiormente". E se gli atleti devono risolvere il difficile problema di mantenersi in forma stando in casa, per un agente la tecnologia è fondamentale, ma non risolve tutto: "Devo incontrare i miei giocatori per fare un recap sulla stagione che stava concludendosi e capire le loro aspettative. Ma devo anche parlare con presidenti, manager e allenatori. La tecnologia ci aiuta a risolvere il problema della distanza, ma non è la stessa cosa", dice Gallinari, "perché certe situazioni si percepiscono anche visivamente ed emotivamente".

Da un punto di vista pratico, inoltre, è difficile negoziare dei contratti quando non si sa se la stagione comincerà regolarmente, come sarà e soprattutto se si giocherà in palazzetti con il pubblico o senza: "Le società, tranne poche eccezioni, non sanno su quali budget potranno contare e soprattutto su quali sponsor. E il pubblico è una parte essenziale dello spettacolo, i giocatori si esaltano davanti ai tifosi. Ma è chiaro, come stanno facendo anche nell'Nba, che la prima cosa che va tutelata è la salute di tutti". Ai tempi in cui Gallinari giocava la pallacanestro era nel pieno del suo boom, con palazzetti che ribollivano di passione. Come sarebbe stata gestita allora una situazione come questa? "C'erano interessi diversi e soprattutto non c'erano le pay tv che oggi sono una componente importante, e perciò condizionante, di questo sport e dello sport in generale. I palazzetti erano sempre pieni anche per questo, perché era l'unico modo per vedere giocare la tua squadra. Difficile pensare a come il mondo dello sport avrebbe reagito a una pandemia".

E nel futuro ci sarà ancora spazio per palazzi dello sport gremiti e tifosi che si abbracciano e cantano gli uni accanto agli altri? "Come tutti sanno, gli Usa sono la patria della pallacanestro, per cui tutte le nazioni tendono a copiare quello che fanno. Per l'Nba i tifosi nei palazzetti sono importanti ma i diritti televisivi ancora di più, per cui spesso le esigenze televisive tendono a superare quelle sportive. Penso che anche nella nostra realtà si andrà pian piano in questa direzione".