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Divulgare significa capire quali sono le domande importanti

, di Fabio Todesco
Vincenzo Perrone, che di recente ha spiegato il mondo del lavoro ai ragazzi delle medie superiori, sostiene che gli accademici dovrebbero studiare problemi rilevanti, prima di fare uno sforzo linguistico per farsi capire. E anche la didattica...

Ha fatto ricerca e pubblicato. Ha insegnato e ha seguito decine e decine di tesisti, diventati manager in tutto il mondo. Ora Vincenzo Perrone, ordinario di Organizzazione aziendale alla Bocconi, si rivolge agli studenti delle scuole superiori, avendo pubblicato per Feltrinelli Il lavoro che sarai, un'opera di divulgazione che vuole spiegare il mondo del lavoro ai più giovani. Ma che vuole, soprattutto, convincerli a sviluppare uno spirito critico che li aiuti a interpretare la realtà. "Il rischio", dice, "è di perdersi nel mondo di internet, che ti risponde allo stesso modo, sia che tu chieda in che anno è nato Churchill, sia che tu chieda quante gambe hanno gli alieni. Eppure è importante saper distinguere tra Churchill e gli alieni".

Perché un docente universitario dovrebbe fare divulgazione?
Fare divulgazione significa, prima di tutto, risolvere il problema della rilevanza. A chi e a che cosa serve quello che facciamo, quello che studiamo? Di tutto ciò che studiamo, che cosa è utile a qualcuno? Divulgare non significa soltanto rispondere a una domanda in modo accessibile, ma, prima ancora, cogliere quali sono le domande che contano per un pubblico più ampio di quello in grado di leggere riviste scientifiche in inglese.

L'economia e il lavoro rientrano tra i temi che interessano il pubblico più ampio?
Certamente. Sono temi centrali nella vita delle persone, ma la fiducia negli specialisti è precipitata. Ai loro occhi non siamo riusciti a raggiungere conclusioni condivise, a fare previsioni affidabili, a costruire ricette efficaci.

Che tipo di sforzo deve fare il divulgatore?
Il filosofo Pierre Bourdieu parlava di due tipi di intellettuale. Quello che vive la ricerca solo come un mestiere, in scarsa relazione con la propria vita, e quello che mette in relazione la propria vita e ciò che studia, un ricercatore che si sente interrogato da quesiti che non nascono dentro l'accademia. Ebbene, il primo sforzo che deve fare il divulgatore è proprio quello di capire quali sono le domande che le persone si pongono. In secondo luogo, deve fare un lavoro importante di mediazione linguistica: le scienze hanno un gergo e una retorica specifici, che renderebbero illeggibile un testo divulgativo – deve adattare il linguaggio per fare in modo che le persone entrino in contatto con la conoscenza, comprendano ed eventualmente si trasformino, facendo uso della conoscenza acquisita.

E quali sono le domande alle quali vuole rispondere con il suo Il lavoro che sarai?
Ho due figli adolescenti e noto il malessere di chi vede il futuro non più come una promessa, ma come una minaccia. Respiro l'ansia dei genitori di classe media, preoccupati di mandare i figli a scuola d'inglese fin da piccolissimi, di fargli fare sport, musica, volontariato – il tutto in funzione strumentale rispetto al lavoro, in una visione del mondo un po' cupa e poco convincente per i ragazzi, che infatti risultano apatici e passivi agli occhi dei genitori. E allora cerco di far vedere ai giovani che il lavoro può essere vissuto come forza e capacità di trasformare se stessi e il mondo, e che vale la pena di prepararsi per questo.

In quali occasioni l'accademico è anche un divulgatore?
A volte mi chiedo se non sia sbagliato contrapporre le due attività. Mi chiedo se possa esserci lavoro scientifico senza rapporto con il proprio oggetto di studio. In definitiva ci proponiamo di formare manager e decisori politici che dovranno lavorare con la realtà, dobbiamo assolutamente avere la curiosità di ascoltare ciò che ci viene detto e di trasferire alle persone ciò che sappiamo. Ammesso, s'intende, che continuino a chiedercelo, visto il calo di fiducia di cui abbiamo già parlato.

E allora anche la didattica è una forma di divulgazione?
Ci sono delle similitudini, ma tutto dipende da come si interpreta la didattica. In Italia e in altri paesi latini imperversa un modello quasi parodistico, quello del riempimento. C'è un pieno, il professore, è c'è un vuoto, lo studente. Il professore scrive un libro, lo riversa sullo studente attraverso la lezione frontale e verifica che gli sia restituito senza distorsioni attraverso l'esame. Già molti anni fa Derek Pugh, studioso inglese di sviluppo organizzativo scomparso lo scorso anno, mi faceva notare l'anacronismo del modello. Andava bene nel Medioevo, quando le poche biblioteche d'Europa erano accessibili solo ad alcuni chierici, che facevano proprie le nozioni e le trasmettevano ai discenti. Oggi lo studente ha accesso al libro e il ruolo del docente dovrebbe essere quello di spingerlo ad applicare le nozioni alla realtà, a criticare con ragionevolezza le tesi del libro. La capacità critica e la creatività, oggi, sono più importanti della capacità mnemonica. Se non le sviluppiamo all'università, come possiamo pensare che gli studenti possano poi essere innovativi in azienda?

Tornando alla divulgazione...
Nella divulgazione non ci sono un pieno e un vuoto, il lettore è un tuo pari, lo devi conquistare. Davis Murray, in un fortunato articolo del 1971 significativamente intitolato That's Interesting!, spiegava che risulta interessante tutto ciò che contraddice il luogo comune, ciò che riesce a sorprendere e a spiazzare. Ciò che è interessante, in un certo senso, è sempre un attacco allo status quo.

Nel corso della sua esperienza professionale, prima del libro sul lavoro, si è mai sentito un divulgatore?
Nell'ultimo biennio dell'università e nei primi sei anni di lavoro da ricercatore, ho insegnato alla scuola popolare di don Cesare Sommariva, un prete-operaio che applicava alle periferie milanesi la lezione di don Milani. Erano scuole medie serali per operai senza diploma. Li si doveva continuamente motivare e lo si faceva lavorando sulla soggettività: si insegnava matematica usando la busta paga, scienze parlando della loro salute. Uscire dai miei confini è stata una grande esperienza per capire la nostra utilità per le persone – e come possiamo misurarla, se non facendo divulgazione?