Ius scholae, un percorso tormentato
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Ius scholae, un percorso tormentato

UNO STRUMENTO MERITOCRATICO PER OTTENERE LA CITTADINANZA MA CHE NON METTE D'ACCORDO TUTTE LE FORZE POLITICHE

di Graziella Romeo, associato presso il Dipartimento di studi giuridici

È giunto al Senato per la discussione generale il testo di modifica della legge n. 91 del 1992 sulla cittadinanza. La proposta introduce il cosiddetto ius culturae (o scholae) ossia una nuova fattispecie di acquisto della cittadinanza basata sul completamento di uno o più cicli scolastici per un totale di almeno cinque anni. Possono esercitare questa opzione, qualora possiedano i requisiti, i minori stranieri, legalmente residenti, nati in Italia o che vi abbiano fatto ingresso prima del compimento del dodicesimo anno di età. La richiesta deve pervenire, entro il raggiungimento della maggiore età, da un genitore legalmente residente in Italia o da chi esercita la responsabilità genitoriale all’ufficiale dello stato civile del comune di residenza del minore.
Lo ius scholae era approdato alle Camere già nel 2016 in un clima di forte dialettica parlamentare che determinò il naufragare del progetto, complice la prioritaria attenzione delle forze di maggioranza verso il coevo progetto di riforma costituzionale. A distanza di sei anni, la discussione si preannuncia altrettanto complessa, anche per la resistenza di alcuni gruppi parlamentari che interpretano l’estensione della cittadinanza a persone che presumono portatrici di culture e tradizioni diverse da quella italiana come una minaccia all’unità nazionale.

L’idea che l’unità politica sia assicurata, almeno parzialmente, dall’omogeneità culturale, linguistica e religiosa ha a lungo rappresentato un assunto del pensiero politico e costituzionalistico. Basti pensare che John Stuart Mill scriveva che “Free institutions are next to impossible in a country made up of different nationalities (Considerations on Representative Government, London, Parker, Son & Bourn, 1861, p. 296). Le profonde trasformazioni sociali del Ventesimo secolo ci hanno però suggerito una lettura diversa e cioè che le comunità nazionali moderne, altamente differenziate e aperte agli scambi commerciali, hanno più chance di proteggere la propria integrità se tutelano le diversità al loro interno, invece che isolarle o determinarne addirittura l’esclusione politica. Negli anni Duemila, poi, la globalizzazione ha imposto di rivedere integralmente il paradigma della comunità politica chiusa, dimostrando che tanto la definizione delle comunità/identità, quanto quella delle regole superano ormai ogni confine materiale o politico.
In questo contesto, la proposta di legge intende risolvere il problema dei minori stranieri che frequentano le scuole italiane, ma non abbiano chance di ottenere la cittadinanza prima della maggiore età, con una soluzione di compromesso. Il testo, infatti, suggerisce la via di un’apertura sorvegliata della comunità politica, ammette cioè “lo straniero” minore, non per nascita ma “per dimostrazione” di una certa familiarità con la lingua e la cultura italiane determinata dall’aver frequentato le scuole del Paese.
Ora, non è inusuale che l’acquisto della cittadinanza sia soggetto al requisito della conoscenza della lingua, della cultura e, in qualche caso, persino della storia nazionale. Si tratta del contenuto tipico di molte leggi sulla cittadinanza in Europa (Germania, Paesi Bassi, Francia). Ha un senso che si può riassumere nello stimolare un senso di appartenenza che potrebbe agevolare la partecipazione politica e la consapevolezza civile. C’è però da chiedersi se sia giusto chiedere ai minori nati in Italia o giunti in un’età molto giovane di dimostrare il potenziale di essere buoni cittadini e buone cittadine. Se cioè in questi casi la concessione della cittadinanza non debba piuttosto rispondere a un’esigenza di protezione dei loro diritti. Sarebbe, dunque, difficile immaginare, almeno per i figli e le figlie di immigrati regolarmente presenti sul territorio italiano che ne facciano richiesta, l’acquisto della cittadinanza alla nascita (ius soli)? 

Si obietterà che gli Stati Uniti ci rammentano che uno ius soli generalizzato può diventare un incentivo alla migrazione, anche clandestina. Le donne migranti potrebbero cioè trovare conveniente partorire figli e figlie italiani per giustificare la loro permanenza sul territorio nazionale, sfruttando abilmente le maglie della legge. Negli Stati Uniti chiamano questo fenomeno “anchor babies” cioè i bambini-ancora che consentono alle madri di rimanere e ottenere tutele tramite loro.
Chi studia e conosce la realtà delle migrazioni sa però che il fenomeno migratorio è complesso ed è incerto quale sia il peso reale di incentivi di questo tipo. Ancora meno chiaro è il problema che la chiusura di una comunità politica intende risolvere: lo sfruttamento opportunistico del sistema di welfare? l’incremento della popolazione migrante?
Se si trattasse del primo problema, il fenomeno dell’abuso e dell’assistenzialismo, ove esiste, evidenzia un comportamento generalmente caratterizzato da un modesto grado di consapevolezza civica diffuso anche tra i cittadini. Qualora invece le preoccupazioni fossero legate all’entità dei flussi migratori, basterebbe studiare le rotte delle migrazioni per capire che gli arrivi dipendono ampiamente da complessi equilibri geopolitici. In ultima analisi, l’esclusione politica che l’assenza di titolarità della cittadinanza determina è un problema serio per la tenuta di uno stato e merita attenzione proprio nell’ottica di salvaguardarne l’esistenza democratica.
Da questo punto di vista, lo ius scholae è un passo avanti per l’integrazione di una platea numericamente ristretta, ma non marginale di persone. Si tratta di un gruppo la cui prima lingua è l’italiano, la cui cultura è quantomeno in parte italiana e, in alcuni casi, il cui Paese di nascita è l’Italia. Al contempo, resta uno strumento che chiede al minore di “meritare” la cittadinanza e non di ottenerla come chance iniziale di partecipazione, di integrazione, di emancipazione.
 
 

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