Le due facce dell'incertezza
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Le due facce dell'incertezza

RISCHI DI RECESSIONE, AUMENTO DELL'INFLAZIONE E POLITICA MONETARIA CHE DOVRA' ESSERE PIU' RESTRITTIVA PER GLI STATI UNITI E MENO ESPANSIVA PER L'AREA EURO. MA, COME SOTTOLINEA IN QUESTA INTERVISTA GUIDO TABELLINI, INTESA SANPAOLO CHAIR IN POLITICAL ECONOMICS DELLA BOCCONI, LA SPINTA VERSO L'INTEGRAZIONE POLITICA E ISTITUZIONALE, IN TUTTO IL MONDO, E' SEMPRE VENUTA DA MINACCE ESTERNE E COMUNI

di Federico Fubini

Guido Tabellini è convinto che la fase attuale, caratterizzata da una drammatica guerra in Europa quando la ripresa dall’impatto della pandemia è ancora incompleto, richieda una duplice lettura. Il titolare della Intesa Sanpaolo Chair in Political Economics dell’Università Bocconi, di cui è stato rettore fra il 2008 e il 2012, pensa che nell’immediato i rischi di una recessione nelle economie avanzate siano alti. Allo stesso tempo vede le condizioni politiche, almeno nelle opinioni pubbliche, per ulteriori passi nell’integrazione europea.

Professore, come risponderanno i Paesi avanzati all’ondata inflazionistica dell’ultimo anno?  
Sicuramente il rischio di recessione è molto alto sia negli Stati Uniti che nell’Unione europea. Negli Stati Uniti, se ci sarà, la recessione sarà causata dalla politica monetaria, che è in ritardo rispetto alla dinamica dei prezzi sostanzialmente per due ragioni. In primo luogo, molti pensavano che l’inflazione fosse dovuta solo a degli shock dal lato dell’offerta, causati dai problemi lungo le catene globali di fornitura e ai rincari dei prezzi dell’energia legati alla guerra. Non si sono resi conto che negli Stati Uniti c’era una componente molto grande di eccesso di domanda dovuta a politiche fiscali troppo espansive da parte del presidente Joe Biden. 

In che modo l’amministrazione americana ha contribuito all’aumento dell’inflazione?
Ha varato politiche di bilancio espansive che si sono dimostrate pro-cicliche, perché l’economia era già ripartita dopo la recessione del 2020. E per mesi la Federal Reserve ha esagerato ad attribuire la ripresa dell’inflazione solo a degli shock dal lato dell’offerta. Ma c’è anche una seconda causa nel ritardo della politica monetaria e questa più comprensibile: con i tassi ufficiali a zero o sottozero, tutti erano consapevoli della natura asimmetrica del rischio di sbagliarsi. Le banche centrali, proprio perché erano così vicine allo ‘zero lower bound’, sapevano che avrebbero avuto pochissimo margine di manovra nell’attuare politiche di sostegno all’economia se una stretta prematura avesse creato contraccolpi inattesi. Al contrario, sapevano di avere più spazio per reagire a un surriscaldamento eccessivo: un ritardo nell’agire può essere corretto più facilmente.

Non è un po’ la situazione nella quale siamo oggi?
Adesso abbiamo capito tutti che questa inflazione non si fermerà senza una politica monetaria restrittiva. Anche l’inflazione di fondo, depurata di fattori più volatili come l’energia o i beni alimentari, è troppo alta. Di conseguenza sono scesi molto i salari reali, ma negli Stati Uniti ci sono tassi di disoccupazione storicamente molti bassi e carenza di manodopera, dunque si sta innescando una spirale fra prezzi e salari. Per cambiare rotta, la politica monetaria non ha alternative al far salire la disoccupazione. Perché l’inflazione rallenta se l’economia rallenta. È difficile calibrare le dosi di una stretta monetaria. L’economia è come un enorme transatlantico, che risponde lentamente e in modo imperfetto agli impulsi di politica economica. Dovrà avvicinarsi molto alla recessione, probabilmente entrarci, perché la Fed riesca a ridurre l’inflazione.

Lo stesso vale per l’area euro?
L’area euro è in una situazione simile, ma diversa. L’eccesso di domanda è sicuramente meno pronunciato, la politica fiscale è stata meno espansiva e la disoccupazione in media è più alta. Ma l’Europa è più esposta degli Stati Uniti all’aumento dei prezzi dell’energia e all’effetto recessivo della guerra. A questo si aggiungerà presto una politica monetaria che diventerà meno espansiva e in parte forse persino restrittiva. È probabile che in Italia e forse anche in Germania siamo già in recessione, nel secondo trimestre di quest’anno. La politica monetaria deve ancora cominciare a diventare restrittiva, lo farà nei mesi a venire e anche in Europa valgono in parte le considerazioni fatte per gli Stati Uniti. La politica monetaria della Banca centrale europea ha meno bisogno di diventare molto restrittiva, soprattutto se gli shock ai prezzi dal lato dell’offerta non si trasmettono ai salari. In quel caso l’effetto inflazionistico sarebbe solo temporaneo. Ma in Germania c’è già evidenza di effetti sui contratti in questo senso.  

Lei ricorda che probabilmente larga parte dell’economia dell’area euro è già in recessione. La Bce non rischia di ripetere gli errori del 2008 e del 2011, quando si spaventò di un dato d’inflazione sopra gli obiettivi e aggravò le recessioni in corso alzando i tassi? 
Nel 2008 e nel 2011 l’errore della Bce fu non capire che la politica monetaria avrebbe aggravato la crisi finanziaria in corso e comunque si era in un momento di riduzione della domanda. Adesso è lo shock dal lato dell’offerta e la domanda internazionale dall’uscita dalla pandemia è sempre stata molto forte. L’inflazione oggi non è un fenomeno locale, ma mondiale. E il tasso di cambio si è svalutato in maniera significativa verso il dollaro, in modo tale da contribuire potenzialmente all’inflazione. Dato che c’è il rischio che cambino le aspettative di inflazione e parta una rincorsa dei salari, è giusto togliere un po’ di spinta espansiva. Forse andava fatto prima. Si tratta semplicemente di normalizzare la politica monetaria.

Christian Lindner, il ministro delle Finanze tedesco, si preoccupa che la fragilità finanziaria dei governi europei più indebitati, Italia per prima, costringa la Bce a praticare una politica monetaria più accomodante del necessario. È un timore fondato?
Penso che Lindner abbia ragione: non c’è dubbio che una delle ragioni per cui Bce è timida nell’invertire il ciclo di politica monetaria è la paura dell’instabilità del debito pubblico italiano.

Non trova però che l’Unione europea sulla crisi ucraina non abbia mostrato la coesione e la capacità di integrazione che si è vista con la pandemia? Per esempio, nel 2020 furono decisi acquisti congiunti di vaccini, mentre oggi i principali paesi europei competono gli uni contro gli altri per trovare gas liquefatto in giro per il mondo.
Quel che lei dice sulla politica energetica è vero, ma in molti siamo rimasti sorpresi che in politica estera e di difesa la risposta dell’Europa sia stata così coesa. L’unità è stata maggiore di quello che ci si poteva aspettare ex ante e sicuramente si aspettava Putin ex ante. Questo è importante, anche perché nel caso di politica estera e difesa non c’è una competenza specifica e questo rende più difficile all’Unione europea dare una risposta compatta. Del resto lo shock del Covid è stato uniforme, molto simile in tutti i paesi, mentre quello energetico attuale è più eterogeneo: Italia e Germania sono  più dipendenti dalla Russia di tanti altri paesi. Gli stessi aspetti geografici adesso contano di più. Per esempio, la vicinanza all’Africa in passato era considerata svantaggio per l’Italia, ma ora rende più facile diversificare gli approvvigionamenti.

Lei ritiene che questa crisi geopolitica, come quella sanitaria, spingerà l’Unione europea verso una maggiore integrazione?
La spinta verso l’integrazione politico-istituzionale, in tutto il mondo, è sempre venuta da minacce esterne e comuni. Questa è un’occasione per fare passi avanti nell’Unione europea ed è possibile che nei prossimi mesi li faremo anche dal punto di vista istituzionale.
 
Le opinioni pubbliche sono pronte? 
Su questo tema abbiamo condotto alcuni studi con Alberto Alesina e Francesco Trebbi in anni recenti. La nostra conclusione è che forse esageriamo a percepire l’Europa come gruppo di paesi che hanno opinioni e interessi diversi. Le differenze di opinioni all’interno di questi paesi sono un ordine di grandezza superiore. L’Italia è piena di eterogeneità al proprio interno e lo stesso Francia e Germania. Se andiamo a vedere le opinioni dei cittadini nei paesi europei riguardo alle scelte politiche o agli atteggiamenti culturali, c’è enorme eterogeneità all’interno dei paesi, mentre la media delle opinioni nazionali è molto simile”.

Che intende dire?
Prendiamo due cittadini mediamente rappresentativi che appartengono a paesi diversi e due cittadini di uno stesso paese selezionati con lo stesso criterio. Ebbene, il fatto che due cittadini siano di paesi diversi aumenta la probabilità di disaccordo fra il 5% e il 10%. Ma il disaccordo tra i cittadini è molto grande all’interno dei paesi, dove però ci sono istituzioni adeguate per raggiungere compromessi politici. Il punto, dunque, non è tanto l’eterogeneità fra paesi europei, ma il disporre di istituzioni riconosciute legittime da tutti e adatte a trovare una sintesi fra le differenze.

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