Nuove direzioni
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Nuove direzioni

LA FORZA DELLA FORMAZIONE CONTINUA E' LA SUA CAPACITA' DI RIGENERARE L'IDENTITA' PROFESSIONALE DEGLI INDIVIDUI E DI STIMOLARE CAMBIAMENTI NELLE ORGANIZZAZIONI. PER QUESTO E' LA PAROLA AL CENTRO DEL PIANO NAZIONALE DI RIPRESA E RESILIENZA E PER QUESTO INVESTIRE NEL RESKILING E UPSKILLING DELLE PERSONE VUOL DIRE INVESTIRE SULLA TRASFORMAZIONE DEL PAESE

È casuale che il sostantivo “formazione” sia citato nel PNRR, Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza  ben 206 volte? Il doppio dell’acronimo PIL, tre volte più di “crescita”, 5 volte più “pubblica amministrazione” e anche molto più di “imprese”. Inoltre, in un passaggio cruciale del piano relativo alle politiche per il lavoro dei prossimi anni (PNRR, p. 212), sono indicati tre obiettivi strategici: 1) aumentare il tasso di occupazione, facilitando le transizioni lavorative e dotando le persone di formazione adeguata; 2) ridurre il mismatch di competenze; 3) aumentare quantità e qualità dei programmi di formazione dei disoccupati e dei giovani, in un contesto di investimento anche sulla formazione continua degli occupati.

Non c’è alcuna casualità in questa attenzione per il capitale umano e la sua crescita attraverso investimenti straordinari nella formazione, nel potenziamento e adeguamento (upskilling) e nello sviluppo di nuove competenze (reskilling). Come il piano Next Generation EU e il PNRR indicano chiaramente, l’uscita dal collasso dell’economia generato dalla pandemia si è saldata con la tendenza, emersa ben prima del COVID, di considerare lo sviluppo delle competenze la chiave di volta per governare le grandi trasformazioni della società. Già nel gennaio del 2017, ben lontani dall’uragano COVID, un fortunato e profetico numero dell’Economist indicava la formazione continua (lifelong learning) come un nuovo “economic imperative”, strada obbligata per le economie e le generazioni che si troveranno a vivere e lavorare nell’era dell’automazione e dell’intelligenza artificiale. L’intreccio tra le spinte alla crescita economica post-pandemia e la rivoluzione tecnologica amplifica le necessità di una riconversione accelerata del capitale umano impiegato, sia nelle imprese, sia nel sistema pubblico. Si tratta di un processo destinato a durare nel tempo poiché la velocità e la profondità delle variazioni nelle competenze e nelle skill imposte dalle trasformazioni settoriali richiedono un adattamento continuo della forza lavoro a cui nessuno è esonerato, sia ai livelli operativi, sia a quelli di controllo e decisionali.




Nelle nazioni industrializzate, per molti anni ha dominato l’idea per cui scolarizzazione e alta educazione rappresentassero una sorta di spinta propulsiva capace di alimentare sine die il ciclo professionale di una persona. Secondo questa logica, più consistente e garantito da istituzioni di prestigio – e quindi costoso – è l’investimento in educazione, più forte e duratura sarà la spinta sulla carriera e la capacità di occupare nel tempo posizioni di responsabilità e, di conseguenza, più alto sarà il ritorno dall’investimento nella formazione all’inizio della carriera. Una volta costituite le fondamenta attraverso una robusta formazione universitaria e, al limite, nei primi anni di lavoro, le competenze necessarie per la crescita professionale e la carriera sarebbero arrivate dall’esperienza sul campo e, al limite, da attività formative non particolarmente intense e strutturate, distribuite all’occasione lungo la vita lavorativa.
Tuttavia, questo approccio si rivela efficace in un mondo di competenze statiche e relativamente stabili nel tempo, nel quale la competenza e la conoscenza sono concepite come uno stock di capitale il cui valore d’impiego è funzione del ciclo di vita professionale e, quindi, dell’anzianità lavorativa. In altri termini, la spinta della formazione inziale e l’esperienza lavorativa nel tempo alimentano una sorta di contenitore in cui la conoscenza e i saperi professionali si accumulano fornendo alle persone strumenti e modelli coerenti con la crescita delle responsabilità, dall’autonomia, della varietà di compiti che l’evoluzione della carriera richiede.



Diverso è invece un contesto che sperimenta una profonda e continua trasformazione nelle competenze. Secondo il report 2020 del World Economic Forum sul futuro del lavoro, entro il 2025 circa 85 milioni di posti di lavoro poterebbero scomparire, mentre emergeranno 97 milioni di nuovi ruoli più adatti alla nuova configurazione della divisione del lavoro tra macchine, algoritmi e esseri umani. A segnare la nuova era, non solo questa radicale trasformazione guidata in larga parte dalla tecnologia, ma anche un generalizzato cambiamento nei modelli delle competenze e delle skill richieste da larghissima parte delle professioni e dei settori.  
Di conseguenza, come forse mai accaduto prima, per poter accompagnare le persone in questa metamorfosi, la formazione e gli investimenti in educazione devono rispondere a due caratteristiche principali: la continuità nel tempo e il valore trasformativo.
La continuità degli investimenti formativi lungo la vita lavorativa è una condizione necessaria per poter fronteggiare l’instabilità nelle skill, intesa come la porzione di nuove conoscenze e competenze funzionali allo svolgimento di un determinato lavoro, che caratterizza moltissime industrie. Per esempio, la skill instability media nei settori agricoltura, cibo e bevande, auto, manifatturiero avanzato, beni consumo, ICT, energia e servizi finanziati è stimata in circa il 44% (WEF, 2020), con punte del 55% come nel caso dell’auto. A questo generale accorciamento del ciclo di vita delle competenze, si aggiunge un’altra tendenza, ossia la riduzione del tempo medio di permanenza in una data posizione lavorativa o mestiere (job-hopping). Il job-hopping, la tendenza cioè a occupare per un tempo molto limitato un lavoro, ha perso il suo tradizionale stigma che ne faceva una caratteristica indesiderata per un datore di lavoro. Mentre la skill instability è una continua modifica delle competenze richieste per un determinato lavoro, il job-hopping è un processo di rapido movimento tra mestieri e posizioni diverse. In entrambi i casi, si osserva una grande dinamicità che caratterizza il rapporto persona-job-organizzazione, nella forma di crescente liquidità nelle competenze richieste per svolgere un determinato lavoro. Tutto ciò impone la continua esposizione a processi di upskillig o reskilling per far sì che la rapida obsolescenza delle competenze non si traduca in un sistematico mismatch tra persone e lavoro a tutto svantaggio, non solo dell’impiegabilità dei singoli, ma anche della produttività complessiva.

In questo contesto, impiegando un’efficace analogia, la formazione continua può svolgere il ruolo di “polizza assicurativa” contro l’obsolescenza delle competenze, esponendo individui e organizzazioni ad un flusso continuo nel tempo di contenuti e aggiornamenti in grado di proteggere la coerenza delle competenze possedute dalle persone e delle competenze richieste dal lavoro. Tuttavia, proprio dal punto di vista della formazione continua, nel confronto tra i 27 paesi UE, la situazione italiana presenta numerose criticità e ritardi. Secondo i dati Eurostat, nel periodo pre-pandemia (2016- terzo trimestre 2019), l’Italia occupava la ventesima posizione per il tasso di partecipazione della popolazione lavorativa ad attività di formazione e addestramento, molto distante da Francia e Germania e sotto la media complessiva UE. Non solo, da questa fotografia emergeva come l’esposizione italiana al lifelong learning appariva: molto più concentrata sugli uomini che non sulle donne (Italia ultima in EU insieme a Cipro, Repubblica Ceca e Ungheria); del 20% più concentrata sulle generazioni 25-34 che non sulle 55-60; molto più concentrata (65.4%) sulle persone con elevata educazione di base (universitaria). Infine, solo il 17% della formazione continua è offerta in Italia da istituzioni riconosciute, accreditate e di base universitaria, la componente maggiore (32.8%) risulta erogata direttamente dal datore di lavoro ed è in larga parte di tipo “informale”. Come si vede, il gap da recuperare è cospicuo e il problema si innesta in una diffidenza generalizzata e una scarsa cultura dell’investimento nella formazione da parte delle piccole e medie aziende, specie quelle focalizzate sul mercato domestico.  
              L’elemento trasformativo della formazione continua si condensa sia nella capacità di modificare profondamente le componenti “hard” delle competenze, ma anche nella forza con cui essa agisce sugli elementi culturali e comportamentali di una persona. Sotto questa luce, la formazione diventa una forza di rigenerazione, una palingenesi (παλιγγενεσá½·α) che si tramuta in rinnovamento radicale. Molti investimenti nella formazione adulta nascono da un’esigenza di rigenerazione professionale che passa sempre per un processo, talvolta molto faticoso dal punto di vista psicologico, di messa in discussione della propria identità professionale. Quello che si osserva, tuttavia, è che la formazione orientata alla trasformazione si concentra anche su persone capaci di cambiare non solo la loro realtà, ma quella delle organizzazioni in cui lavorano. Si tratta di persone in grado di rimettersi in discussione per una rigenerazione professionale che produce impatti positivi su tutta l’organizzazione, favorendone il cambiamento e la stimolando la capacità di affrontare le trasformazioni nei modelli di business, nelle tecnologie, nei comportamenti dei consumatori.

di Giuseppe Soda, dean SDA Bocconi School of Management

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