Executive education: storia di una metamorfosi
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Executive education: storia di una metamorfosi

L'INCERTEZZA DETERMINATA DALLA PANDEMIA HA FATTO EMERGERE LA NECESSITA' DI RAFFORZARE NEI MANAGER LE COMPETENZE DI PENSIERO CRITICO, CREATIVITA', PEOPLE MANAGEMENT E LA CAPACITA' DI GESTIRE SITUAZIONI COMPLESSE. L'URAGANO COVID19 ARRIVA COSI' NELLE SCUOLE DI MANAGEMENT CHE DOVRANNO ARRICCHIRE I PROPRI PROGRAMMI DOPO ESSERSI ADATTATE AL VENTO DELL'ETICA, DELLA DEI DATI E DEL DIGITALE CHE DA INIZIO 2000 HA INIZIATO A SOFFIARE SEMPRE PIU' FORTE

di Giuseppe Soda, Direttore di SDA Bocconi, School of Management

L’uragano Covid-19 si è abbattuto sul mondo della formazione post-laurea e manageriale quando già da diversi anni era in corso una persistente tempesta. Il vento della trasformazione dei contenuti offerti e dei formati utilizzati nella formazione aveva cominciato a soffiare impetuoso con le crisi finanziarie innescate dal crack dei mutui subprime e proseguite poi nelle tensioni sui debiti sovrani. I grandi scandali e la discussione critica attorno al modello dominante dello shareholder value e della finanza iperbolica spinse molte scuole di management ad avviare nuovi programmi e a integrare i curricula dei master in Business Administration e dei corsi executive con nuovi contenuti attorno ai temi della responsabilità sociale delle imprese, dell’etica del business e della finanza sostenibile. Ma i processi che portano alle grandi metamorfosi non sono mai lineari e quasi mai seguono un rigido sviluppo diacronico. Infatti, della necessità di alimentare la management education con contenuti di etica, responsabilità e sostenibilità si erano già accorte le Nazioni Unite, tanto che nel 2007 il Segretario Generale Ban Ki-moon aveva lanciato a livello globale il programma PRME (Principles for Responsible Management Education). Un’iniziativa su scala globale finalizzata a incidere sulla formazione delle classi dirigenti verso una leadership responsabile e attenta agli obiettivi sanciti nella carta dello sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals). In risposta a questa crescente attenzione, i corsi di studio offerti dalle grandi scuole di management hanno iniziato a integrare in modo sistematico contenuti che pochi anni prima erano impensabili come l’etica del business e delle decisioni, la sostenibilità ambientale, il management multi-stakeholder, l’inclusione la gestione delle diversità, il consumo e il marketing responsabile, l’imprenditorialità sociale e il commercio equo, solo per fare alcuni esempi.

Ma, a rendere più complesso il quadro, a partire dalla prima decade del 2000 iniziava un altro processo che, come nel caso della sostenibilità, avrebbe inciso profondamente sulla struttura dei programmi di formazione manageriale: la rivoluzione dei dati. Lo sviluppo tumultuoso della tecnologia e del digitale rendevano sempre più inevitabile esporre i futuri leader delle organizzazioni private e pubbliche alla scienza dei dati, agli analytics, alle implicazioni gestionali e organizzative della robotica e dell’intelligenza artificiale. Così, in pochi anni, tutte le grandi istituzioni internazionali che operano nel campo dell’educazione manageriale e di business hanno lanciato programmi master e corsi executives nel campo del data science, con livelli molto eterogenei di profondità, ma tutti legati dall’idea che il funzionamento operativo e le capacità competitive dipenderanno sempre più dalla costruzione, dall’utilizzo intelligente di grandi basi di dati e dalla possibilità di integrare l’intelligenza artificiale nei processi aziendali.             

Queste radicali, e quasi contestuali, trasformazioni nei contenuti trasmessi nei programmi di management si innestavano in un processo parallelo e che avrebbe manifestato tutta la sua dirompente forza proprio con la crisi generata dal coronavirus. Infatti, nella prima metà degli anni 2000 era iniziata, sottotraccia e con molti scetticismi, la grande marcia dell’apprendimento a distanza alimentato, ancora una volta, dallo sviluppo delle nuove tecnologie e dalla transizione verso il mondo digitale. La progressiva affermazione delle tecnologie e dei modelli di formazione a distanza ha vissuto un’inaspettata accelerazione e convolto decine di milioni di studenti di ogni ordine e grado proprio con la crisi degli ultimi mesi.

Così, tra la metamorfosi settoriale generata dalle tecnologie a distanza, che ha consentito l’ingresso nel settore della formazione di operatori molto diversi dalle tradizionali scuole di management e di business di matrice universitaria, e la rivoluzione dei dati e della sostenibilità, la formazione manageriale si avvicina al terzo e ultimo grande cambiamento a cui pochi avevano prestato attenzione e che è storia di questi giorni.

Ma anche per raccontare una storia così attuale, è utile un veloce flash back. Nel 2015, a seguito di una ricerca molto estesa che vedeva coinvolto un gruppo molto a ampio e stratificato settorialmente di responsabili delle risorse umane, il Word Economic Forum aveva azzardato una previsione riguardo alle competenze che sarebbero state centrali per imprese e istituzioni nel 2020. Questa previsione si basava sull’osservazione di instabilità delle “core skill” di molti settori, generata dal complesso dei cambiamenti socio-economici, culturali e tecnologici in corso. Per alcuni settori, per esempio la produzione industriale, la finanza e la mobilità, il tasso di distruzione delle skill tra il 2015 e il 2020 era stimato attorno al 40%. Competenze che diventano obsolete devono essere rimpazziate da altre e, in questa speciale classifica di quelle previste come più rilevanti per il 2020 spicca la “capacità decisionale in condizioni di complessità” (Complex decision making), seguita dal “pensiero critico”, dalla creatività e dal people management. Nella top 10 si trovano anche la capacità di “giudizio” nei processi decisionali e la flessibilità cognitiva. Le competenze di data science e quelle “culturali” legate alla sostenibilità sono assenti in quanto considerate come necessarie, parte del core, ma non capaci di fare davvero la differenza per il futuro.

Ovviamente l’uragano Covid-19 non era contemplato, ma a leggere attentamente quella lista si parla proprio delle aree di competenza che più hanno sfidato, con la drammaticità della pandemia, i decisori pubblici e privati in tutto il mondo. Abbiamo scoperto che i dati, anche se siamo in grado di maneggiarli con grande cura, spesso non ci sono e se ci sono, a volte, non sono decisivi. Ci siamo improvvisamente ricordati che i decisori si trovano spesso di fronte a trade-off e dilemmi irrisolvibili, dove la scienza dei dati ci aiuta senz’altro, ma poi molte decisioni si prendono sulla base di giudizi, di assunzione di responsabilità, di intuito. Abbiamo drammaticamente capito che in condizioni di incertezza ci servono prospettive multiple, che il pensiero critico alimenta l’innovazione e può favorire la scoperta di soluzioni efficaci. La crisi ha messo in evidenza la necessità di disporre di conoscenze e strumenti utili a comprendere in profondità la situazione che si sta affrontando, seguita da migliori abilità di visione prospettica e sistemica dell’evoluzione della situazione per avere piena consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni e di quelle degli altri. A integrazione di tutto ciò, occorre lo sviluppo di competenze di trasmissione delle conoscenze, comunicative, relazionali e negoziali orientate a favorire l’emergere di un contesto utile al raggiungimento di un risultato comune, specie quando il tavolo decisionale è composto da attori e interessi multipli e non sempre convergenti. Il tutto senza mai perdere l’orientamento al risultato, la capacità di misurarlo e monitorarlo. Inoltre, il distanziamento e il lavoro agile hanno improvvisamente messo in luce molte ridondanze del lavoro quotidiano, dimostrato che la fiducia può sostituire il controllo, ma anche che le persone e l’intelligenza e il contributo umano restano centrali, per cui le persone devono essere gestite con grande attenzione e cura.

In sostanza, il virus ha svelato molte debolezze dei decisori, indicando un nucleo di competenze su cui occorrerà orientare i programmi formativi dei prossimi anni e che serviranno ad aiutare le persone e i futuri leader a fronteggiare responsabilmente la complessità che ci riserva il futuro.

Queste competenze non sostituiranno quelle su cui oggi poggiamo i programmi di management, ma andranno ad arricchire un'offerta articolata in cuiprofondità e ampiezza delle competenze saranno affidat a percorsi formativi flessibili e costruiti sui bisogni di ciascuno.

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