Il coronavirus mette a rischio anche l'accordo commerciale tra Ue e Uk
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Il coronavirus mette a rischio anche l'accordo commerciale tra Ue e Uk

SE A FINE FEBBRAIO IL NEGOZIATO SEMBRAVA IN SALITA, L'ARRIVO DELLA PANDEMIA HA RESO L'IMPRESA ANCORA PIU' ARDUA. IN QUESTI FRANGENTI, LA COSA PIU' SAGGIA SAREBBE UNA PAUSA DI RIFLESSIONE

di Paola Mariani, professore di Diritto dell'Unione europea

La saga Brexit è una continua corsa contro il tempo e non è ancora finita. L’accordo di recesso entrato in vigore l’1 febbraio 2020 prevede infatti un periodo transitorio di soli 11 mesi in cui le parti a condizioni invariate dovrebbero negoziare e concludere un accordo che regoli i loro rapporti futuri, in particolare i rapporti economico commerciali. Fino alla fine del periodo transitorio, il Regno Unito sarà ancora soggetto alle regole europee e beneficerà della partecipazione al mercato unico. Ma cosà succederà dopo, se nuove regole non verranno concordate? È interesse di entrambe le parti, l’Unione con i suoi 27 Stati membri e il Regno Unito, che l’effettiva uscita dall’Unione avvenga in maniera ordinata, dando agli operatori economici e alle persone regole chiare su se e come potranno proseguire relazioni consolidate in quasi cinquant’anni di mercato europeo libero ed aperto. Per questo motivo, entrambe le parti non hanno perso tempo e si sono subito impegnate nel nuovo negoziato, consapevoli che mai prima d’ora un accordo di tale natura e complessità era stato concluso in così pochi mesi. È vero che si sarebbe dovuto partire “avvantaggiati” dall’esistenza di un accordo politico sul quadro dei futuri rapporti economici contenuto nella Dichiarazione Politica che accompagna l’Accordo di recesso. Ma quando a fine febbraio sono state rese pubbliche le rispettive direttive negoziali, si è scoperto che alcuni dei principi contenuto nella Dichiarazione non erano più condivisi dal Regno Unito. In particolare, il mantenimento del level playing field esistente al momento dell’uscita del Regno Unito dall’Unione in alcuni settori chiave dell’economia tra cui la concorrenza, gli aiuti di Stato, i diritti dei lavoratori, la tutela dell’ambiente e la sicurezza alimentare e sanitaria come condizione per il libero accesso delle merci e in parte dei servizi ne rispettivi mercati veniva negato a favore di un potere unilaterale e incondizionato del Regno Unito di divergere dagli standard europei pur mantenendo l’accesso libero al mercato.
 
Se a fine febbraio il negoziato sembrava in salita, l’arrivo della pandemia ha reso l’impresa ancora più ardua. Il virus non ha risparmiato gli attori protagonisti di questa saga, i due capo negoziatori Michel Barnier e David Frost e lo stesso Boris Johnson sono risultati positivi e hanno dovuto interrompere le loro attività per curarsi. Fortunatamente ora stanno bene e possono ricominciare ad occuparsi del negoziato che dopo una lunga pausa ricomincia con sessioni in videoconferenza. Ma la pandemia non ha soltanto imposto il lockdown del negoziato, ha avuto effetti devastanti sul commercio internazionale e non sappiamo se alla fine dell’emergenza i rapporti commerciali tra gli Stati torneranno quelli di prima.
 
Entrambe le parti condividono posizioni di apertura verso il commercio mondiale e gli investimenti stranieri. In particolare il Regno Unito considera l’uscita dall’Unione come la condizione per imporsi come campione del libero commercio mondiale. Nei rapporti con il resto del mondo, l’obiettivo perseguito dal Governo britannico è di attivare una campagna serrata di negoziati per concludere nuovi accordi commerciali per sostituire l’Unione europea e i suoi Stati membri con nuovi partner commerciali, dagli Stati Uniti all’economie emergenti dell’Asia. Per questo motivo, l’adesione agli elevati standard dell’Unione viene vista come un ostacolo all’apertura al commercio globale. Ma questo obiettivo è ancora raggiungibile? La reazione alla pandemia nell’immediato è stata protezionista, lo stesso mercato interno ha registrato chiusure di frontiere per merci e persone a causa dell’emergenza. La risposta dell’Unione è stata di contrastare comportamenti protezionistici interni ma al contempo si è chiusa verso l’esterno.
 
In questi momenti di grande incertezza la scelta più saggia per entrambe le parti sarebbe di prendere una pausa di riflessione e tornare a ripensare a scenari futuri quando il quadro mondiale sarà più chiaro. L’accordo di recesso consente un’estensione del periodo transitorio per un massimo di uno o due anni, ma l'eventuale proroga dovrà essere decisa congiuntamente dall'UE e dal Regno Unito entro il 1º luglio 2020. Ad oggi, non sembra esserci la volontà politica del Governo britannico nel senso di una proroga. L’eccezionalità dei tempi che stiamo vivendo potrebbe portare alla vera e propria uscita del Regno Unito dall’Unione senza un accordo, mettendo ulteriormente a rischio attività economiche che alla fine del 2020 saranno già state duramente colpite dalla crisi economica dovuta alla pandemia. L’Europa deve essere unita nell’affrontare la crisi se non vuole che i suoi cittadini debbano pagare un prezzo ancora più alto. Ciò vale anche per il Regno Unito che nel suo stesso interesse deve continuare a rapportarsi con il suo più importante partner commerciale con regole certe e condivise.

Paola Mariani, Giorgio Sacerdoti, The New Negotiations on the Future Trade Relations, in FABBRINI (ed), The Law and Politics of Brexit: The Withdrawal Agreement, Oxford University Press, forthcoming 2020, Vol. II

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