Se sale lo spread si chiudono i rubinetti del credito
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Se sale lo spread si chiudono i rubinetti del credito

SECONDO UNO STUDIO DELLA CRISI DEL DEBITO SOVRANO DEL 2010/2012, LE BANCHE VEDONO DIMINUIRE I PRESTITI DA PARTE DEGLI INVESTITORI ISTITUZIONALI E REAGISCONO RIDUCENDO L'OFFERTA

di Filippo De Marco, assistant professor presso il Dipartimento di finanza

Nell’ultimo anno, in Italia, si è ricominciato a parlare di spread, cioè della differenza tra i rendimenti dei titoli di stato italiani e quelli tedeschi. Un aumento dello spread segnala come gli investitori giudichino più rischiosi i titoli italiani e di conseguenza ne abbassino le valutazioni (nota: rendimenti e prezzi sono negativamente correlati). Molti commentatori e giornalisti sostengono che a causa dello spread le banche italiane, che hanno in pancia circa 380 miliardi di titoli di stato, abbiano  aumentato i tassi sui nuovi mutui, cioè abbiano ridotto l’offerta di credito all’economia reale.
In questo contesto è utile esaminare l’esperienza della crisi del debito sovrano del 2010-2012, quando lo spread, non solo in Italia ma anche in altri paesi periferici (Grecia, Irlanda, Spagna e Portogallo), raggiunse livelli molto alti, più di quelli attuali. Analizzando i dati sulle esposizioni al debito sovrano delle principali banche europee, ho stimato infatti che le banche più esposte allo spread abbiano effettivamente ridotto l’offerta di credito alle imprese e aumentato i tassi sui prestiti nel periodo 2010-2011. La ridotta disponibilità di credito ha avuto effetti negativi sugli investimenti delle imprese, soprattutto piccole e giovani, che prendevano a prestito dalle banche più esposte.
Ma quali sono i canali tramite i quali lo spread danneggerebbe le banche e, in ultima istanza, le famiglie e le imprese? Per prima cosa, una diminuzione del valore di mercato dei titoli detenuti in portafoglio può ridurre il capitale della banca che si vedrebbe dunque costretta a tagliare il credito per soddisfare i requisiti di capitale (capital channel). Le perdite di mercato sono però solo potenziali, e dipendono da come la banca classifica i titoli pubblici nei libri contabili. Semplicificando molto, questi possono essere valutati a prezzi di mercato (marked-to-market, Mtm) o a prezzo storico (held-to-maturity, Htm). Nel primo caso, ma non nel secondo, l’aumento dello spread impatta immediatemente il capitale bancario.
È però improbabile che il capital channel fosse operativo in questo caso. Dai dati degli stress test della European Banking Authority si nota infatti come la gran parte (circa il 50%) delle esposizioni bancarie al debito sovrano non fossero Mtm. Per di più, anche tra quelle Mtm, le perdite di valore potenziali non erano considerate ai fini del calcolo del capitale prudenziale.

Ciò nonostante, le banche più esposte hanno ridotto l’offerta di credito. Come è stato possibile? Questo è avvenuto perché le perdite potenziali sul debito sovrano hanno aumentato il costo di rifinanziamento bancario a breve termine sul mercato all’ingrosso (wholesale funding channel). Infatti, gli investitori istituzionali che prestano fondi alle banche su tali mercati reagiscono a perdite potenziali, anche se non ancora realizzate. In altre parole: ai mercati finanziari non interessa la definizione contabile delle esposizioni bancarie al sovrano, ma il fatto che il rischio sovrano esista e si possa materializzare in futuro.
A supporto di questa tesi trovo infatti che i fondi comuni americani che investivano in titoli unsecured emessi da banche europee (in particolare commercial paper e certificates of deposits) non erano più disposti a rinnovare i finanziamenti alle banche, soprattutto se queste erano esposte allo spread sovrano. E sono le banche che dipendevano maggiormente dalla raccolta a breve termine su questi mercati che hanno tagliato maggiormente l’offerta di credito. In conclusione: lo spread ha effetti sull’economia reale attraverso il sistema bancario.
 
 

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