La responsabilita' penale d'impresa ancora disattesa
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La responsabilita' penale d'impresa ancora disattesa

NELL'85% DEI CASI, NELL'ITER GIUDIZIARIO, LE SOCIETA' SPARISCONO DAL RADAR DELLA PROCURA, CHE PROCEDE SOLO CONTRO I MANAGER. LE AZIENDE PERDONO OGNI INCENTIVO ALLA PREVENZIONE

di Massimo CeresaGastaldo, ordinario di diritto processuale penale

Quando si parla di responsabilità da reato delle imprese, c’è un punto sul quale sono tutti d'accordo: la disciplina varata a inizi Duemila (decreto 231/2001), quel corpus normativo che ha rivoluzionato lo scenario sanzionatorio infrangendo il tabù del societas delinquere non potest, ha bisogno di un intervento di manutenzione. Soprattutto all'impianto processuale, dal cui corretto funzionamento dipendono l’operatività, l’affidabilità e persino la credibilità del sistema.
Per essere seria, la discussione sulla riforma deve però tenere conto di un dato, sino a oggi poco considerato: il fenomeno, emergente dall’analisi delle statistiche giudiziarie, della sostanziale ineffettività del modello sanzionatorio e preventivo disegnato dal decreto 231 dovuta alla diffusa disapplicazione giudiziale della normativa.
Esiste, infatti, una ingente ‘cifra grigia’ di illeciti che vengono sistematicamente ignorati dall’autorità giudiziaria. È impressionante il numero delle pratiche che si ‘perdono’ negli uffici delle procure. Mancate annotazioni degli illeciti, pur a fronte di procedimenti penali avviati per reati che, ex lege, comporterebbero la responsabilità dell’ente. Basti pensare che in un distretto giudiziario come quello di Milano la maggior parte delle società sparisce dai radar della procura: solo il 10-15% di annotazioni a carico degli enti viene registrato. Nell’85%, 90% dei casi, dunque, si procede solo contro il vertice o il sottoposto e si ‘risparmia’ la società, benché questa sia coinvolta.
L’elusione normativa non dipende dalla mancata emersione dell’illecito o dalla incapacità della macchina giudiziaria ingolfata di smaltire il carico di lavoro.  Si tratta di illeciti noti, messi in evidenza dall’insorgere del procedimento per il reato presupposto, che sarebbero destinati a confluire nel medesimo procedimento, senza duplicazioni o appesantimenti eccessivi. E che tuttavia vengono completamente ignorati. Al momento della formalizzazione della notizia del reato, l’ipotesi della responsabilità dell’ente svanisce quasi sempre nel nulla. L’illecito penale viene iscritto nel registro generale, mentre viene omessa l’annotazione prevista dall’art. 55 del decreto: solo in un numero trascurabile di casi l’informazione viene registrata e il procedimento a carico della società viene alla luce. Per la verità, l’art. 55, nel prescrivere come doverosa l’immediata annotazione dell’illecito, vieterebbe alla procura di operare selezioni: tutti gli illeciti andrebbero registrati. Eppure, la prassi inosservante è diffusissima, perché ha finito per attecchire l’idea della sostanziale libertà del pubblico ministero nella scelta se indagare o meno la società. Lo ammette, senza falsi pudori, la Relazione al Bilancio Sociale della Procura di Milano: commentando l’incredibile spread, spiega che «la ragione di fondo è che l'iscrizione della persona giuridica è ritenuta ancora una valutazione discrezionale».
E quali sono i criteri di scelta? I più disparati: la preparazione dei singoli magistrati, la disponibilità di risorse, la sensibilità del procuratore, la preferenza per una materia rispetto a un’altra.
Lo scenario è desolante. Il decreto continua a minacciare con severità e rigore pesanti sanzioni per l’ente e si affida alla giurisdizione penale proprio per garantire l’imparziale applicazione della legge e la massima efficacia dell’attività di accertamento. Ma tutto questo rischia di tradursi in una beffa. Quella stessa giustizia penale, amministrata nelle stanze in cui campeggia il memento “la legge è uguale per tutti”, applica la legge in un caso su dieci, facendo sparire ogni traccia degli altri nove. Quell’enorme ‘cifra oscura’ documenta la clamorosa smentita, nei fatti, della legalità della sanzione e del processo, assicurata solo in apparenza dalle norme.
Oggi le imprese italiane – a sentire gli aziendalisti – sono consapevoli di quanto siano scarse le probabilità di essere coinvolte in un processo penale insieme al loro esponente che sia imputato; e, fatta eccezione per quelle maggiormente strutturate, difficilmente si impegnano nella profilassi.

Da una ricerca di Confindustria, quasi i due terzi delle società intervistate non hanno adottato alcun modello prevenzionistico.
E allora, se si vuole recuperare l’effettività dei principi di legalità e di uguaglianza, il più urgente obiettivo è quello di ripristinare l’obbligatorietà ‘dimenticata’ dell’azione sanzionatoria, introducendo il controllo del giudice (oggi assente) sull’inazione e ribadendo l’assenza di qualsiasi spazio discrezionale all’avvio delle indagini.

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