Nel nome della legge Palmira sarebbe salva
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Nel nome della legge Palmira sarebbe salva

A MANCARE NON SONO LE REGOLE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE PER LA TUTELA DEI SITI CULTURALI E DELLE OPERE D'ARTE DURANTE LE GUERRE MA LE RISORSE, ECONOMICHE E DI COMPETENZE, NECESSARIE PER ATTUARLE E FARLE RISPETTARE

di Roger O'Keefe, ordinario presso il Dipartimento di studi giuridici

Si può comprendere chi mostrasse un certo scetticismo nell’apprendere che esistono regole di diritto internazionale che proteggono i siti culturali e le opere d’arte durante le guerre. Se queste regole funzionano, come mai Palmira, Nimrud e Timbuktu sono state devastate? E che dire del diffuso saccheggio di antichità nelle attuali zone di guerra?
Come per il restauro delle opere d’arte, la valutazione del diritto internazionale sulla protezione dei beni culturali nei conflitti armati richiede una valutazione delle circostanze in cui si lavora e degli strumenti a disposizione.
La legge può arrivare solo fino a un certo punto nel limitare determinate condotte. Nessuna regola potrà mai fermare coloro che per malizia, avidità, ideologia o arroganza alimentano il disprezzo per l’idea stessa di diritto. Ci sono codici penali in tutto il mondo, ma le persone malvage fanno comunque cose malvage. Lo stesso vale per le leggi di guerra sulla protezione dei beni culturali.
La legge, per essere efficace, dipende anche dalla capacità di farla rispettare. Le migliori regole e le più ferree volontà del mondo sono inutili senza le risorse umane e materiali per sostenerle. Il personale, la formazione e i sistemi amministrativi e tecnici sono costosi, richiedono esperienza e non possono essere mobilitati da un giorno all’altro. Alcuni attori statali e non statali nei conflitti armati non hanno semplicemente i mezzi per assolvere i loro obblighi legali, almeno nella misura in cui questi li impegnano a prevenire il saccheggio di un gran numero di siti archeologici da parte della popolazione locale o della criminalità organizzata.

La buona notizia, tuttavia, è che la grande maggioranza degli Stati e persino dei gruppi armati non statali valuta in modo estremamente positivo il diritto internazionale per la protezione dei beni culturali nei conflitti armati. Inoltre, queste regole promuovono e creano meccanismi per la cooperazione e l’assistenza internazionale che ne facilitino l’attuazione, compreso il rafforzamento delle capacità di farla rispettare.
Le regole non vogliono solo arginare i cattivi. Obbligano anche i buoni a prendere tutte le precauzioni possibili nei conflitti armati per tenere i beni culturali lontani dai rischi o per limitare i danni. Il trasporto in sicurezza delle opere d’arte ospitate dai musei a rischio e la protezione di tesori artistici e architettonici con sacchi di sabbia e impalcature, come previsto dal diritto internazionale, hanno salvato innumerevoli siti culturali e opere in guerra, dal Cenacolo di Leonardo a mosaici e manoscritti antichi in Siria, Iraq e Mali.
Inoltre, laddove il diritto internazionale non può impedire, può almeno punire e costringere al risarcimento. La distruzione deliberata e il furto di beni culturali nei conflitti armati sono crimini di guerra perseguibili sia nei tribunali internazionali che in quelli nazionali, come hanno imparato a proprie spese molti ufficiali nazisti, personalità politiche e militari di tutta l’ex Jugoslavia e gli estremisti islamici del Sahel. Gli stessi atti costituiscono anche illeciti giuridici internazionali per i quali gli Stati responsabili, dall’Italia all’Etiopia, sono stati obbligati dai trattati di pace o dai tribunali internazionali a pagare compensazioni o, quando possibile, a riparare restituendo le opere rubate.
In definitiva, le regole del diritto internazionale per la protezione dei beni culturali nei conflitti armati non sono perfette, così come nessuna istituzione umana è perfetta. Fanno quel che possono. Ma quello che possono fare e che fanno è più di quanto gli scettici possano pensare.
 

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