Il cervello in fuga fa bene al paese d'origine
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Il cervello in fuga fa bene al paese d'origine

CHE COSA INSEGNA ALL'ITALIA IL CASO DELL'IMMIGRAZIONE DEL CAPITALE UMANO INDIANO VERSO GLI STATI UNITI

di Stefano Breschi, ordinario presso il Dipartimento di management e tecnologia

L’India rappresenta una delle più importanti fonti di migrazione ai giorni nostri, con oltre 15 milioni di residenti all’estero. Fra questi, gli immigrati indiani laureati in discipline tecniche, scientifiche e ingegneristiche costituiscono un caso interessante. Essi rappresentano, infatti, una risorsa vitale per il sistema innovativo degli Stati Uniti, contribuendo tra l’altro a circa il 6% di tutte le innovazioni brevettate da inventori residenti negli Usa e al 15% di tutte le startup fondate nella Silicon Valley. Come per altri paesi esportatori netti di capitale umano qualificato, tra i quali è opportuno ricordare l’Italia, una domanda che sorge spontanea è: quanto e come l’India può beneficiare di questa diaspora di menti? A lungo, l’emigrazione di giovani laureati è stata percepita come un fenomeno negativo, la cosiddetta fuga dei cervelli. Solo di recente si è affermata una visione più positiva, secondo la quale la migrazione intellettuale può rappresentare un veicolo di trasferimento di conoscenza, tecnologie e competenze verso i paesi di origine. In tal senso, uno dei canali più rilevanti è sicuramente rappresentato dal ritorno nel proprio paese dei lavoratori qualificati. Il tema è così importante che perfino il primo ministro indiano Narendra Modi, in un suo recente viaggio negli Stati Uniti, ha parlato della Silicon Valley come di un deposito di cervelli indiani, in attesa del momento adatto per rientrare nella madre patria.
Malgrado l’importanza del problema, tuttavia, molto poco si conosce ancora riguardo all’entità del fenomeno, dal momento che le statistiche ufficiali non registrano la migrazione di ritorno verso i paesi di origine. Per tale ragione, in un recente lavoro, partendo dalla popolazione degli inventori delle 179 più grandi imprese statunitensi quotate nel settore dell’Ict nel periodo 1975-2016, abbiamo analizzato i curricula di 5.500 inventori indiani. Per ciascun individuo, abbiamo codificato tre insiemi di variabili, riguardanti rispettivamente: il livello educativo (laurea, master, dottorato) e il luogo e anno di conseguimento del titolo (India, Stati Uniti); la carriera lavorativa (nome e luogo del datore di lavoro e periodo dell’impiego); l’età. Infine, sulla base di queste informazioni, ciascun inventore indiano è stato classificato in ogni anno in base a tre possibili stati: non-migrante, migrante negli Stati Uniti, migrante di ritorno in India.
Il flusso migratorio più intenso verso gli Usa ha avuto luogo nei due decenni 1990 e 2000. Inoltre, circa i tre quarti degli individui esaminati è migrato per motivi di studio, ossia l’anno di entrata negli Stati Uniti coincide con l’inizio di un corso di master o di dottorato, mentre poco più di un quarto degli inventori indiani è migrato attraverso il mercato del lavoro. I dati mostrano che i tassi di ritorno differiscono in modo rilevante a seconda dei motivi alla base della scelta migratoria: mentre un terzo dei migranti negli Stati Uniti per motivi di lavoro ha fatto ritorno in India entro il 2016, ciò si è verificato solo per il 22% dei migranti per motivi di studio. In entrambi i casi, comunque, il fenomeno appare tutt’altro che trascurabile. 
Un’analisi econometrica più sofisticata rivela un’ulteriore differenza tra le due tipologie di migranti. Il rischio di tornare in India decresce con il passare del tempo speso negli Stati Uniti per i migranti per motivi di lavoro, un risultato che suggerisce le crescenti difficoltà di trasferire e sfruttare nel paese di origine le competenze acquisite all’aumentare del tempo trascorso all’estero, mentre l’opposto si verifica per i migranti per motivi di studio.

Tornando alla domanda iniziale, ovvero se la migrazione di capitale umano qualificato verso gli Stati Uniti costituisca una perdita netta per un paese come l’India, la risposta, per quanto cauta e basata su un’analisi ancora esplorativa, sembra essere negativa. Una proporzione non trascurabile di migranti ritorna nel proprio paese e, cosa più importante, le conoscenze e le capacità acquisite negli Stati Uniti trovano applicazione nel mercato del lavoro indiano. Il potenziale di conoscenza, innovazione, e relazioni che queste persone portano con sé è significativo. Una lezione che dovrebbe far riflettere un paese come l’Italia, che nel solo 2016 ha perso 114mila persone, di cui si stima che il 30% siano laureati, entrando così nel poco invidiabile club dei dieci paesi Ocse con il più alto tasso di emigrazione.

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