Prendiamo le misure al benessere (sociale)
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Prendiamo le misure al benessere (sociale)

DAL PIL AL BES FINO AL NUOVO HUMAN LIFE INDICATOR, SONO DIVERSI I MODI PER QUANTIFICARE QUANTO STIAMO BENE A CASA, IN AZIENDA E NEL NOSTRO PAESE. SUPERANDO LA DIMENSIONE ECONOMICA, NON DOBBIAMO PERO' OFFUSCARE GLI EFFETTI DELLE POLITICHE PUBBLICHE

di Francesco Daveri, direttore Mba Sda Bocconi School of Management

Dopo dieci anni di crisi, in Italia sembra impossibile parlare di benessere se non con riferimento alle parole chiave di sempre: redditi, lavoro, povertà. E non è un caso. Prima del ritorno della recessione del secondo semestre 2018, il prodotto interno lordo pro capite misurato al netto dell’inflazione - la misura più comunemente usata per valutare il benessere del cittadino medio - era allo stesso livello del 1999, con un divario di nove punti percentuali in meno rispetto ai massimi del 2007.

Per il lavoro il quadro è in chiaroscuro: un recente rapporto Istat indica che, grazie alla ripresa degli ultimi quattro anni, in Italia ora lavorano circa 23,3 milioni di persone, il 58 per cento della popolazione in età lavorativa. Ma la quota di disoccupati - le persone attivamente alla ricerca di un’occupazione e disponibili ad accettarla ma che non riescono a trovarla - rimane sopra al 10 per cento: quattro punti al di sopra dei dati di inizio 2008. E il lavoro che c’è è prima di tutto “poco intenso” e poi anche precario. La bassa intensità di lavoro si misura guardando al totale delle ore lavorate, che è inferiore di 5 punti percentuali rispetto ai massimi del 2008. Un segno del fatto che i 23 milioni che lavorano lo fanno ognuno mediamente meno intensamente di prima. Mentre l’accresciuta precarietà indotta dalla globalizzazione prima ancora che dalla legislazione si traduce in un aumento dei lavoratori impiegati involontariamente a tempo parziale - coloro che volentieri svolgerebbero un’attività lavorativa a tutto tondo – pari a un milione e mezzo di persone. Infine, ma certo non in ordine di importanza, nel 2017 le famiglie in una situazione di povertà assoluta, quei nuclei che non riescono a permettersi un tenore di vita al di sopra di una soglia minima variabile per zona geografica e condizione socioeconomica (1.300 euro per due coniugi con un figlio al Nord e 1.000 euro per lo stesso nucleo familiare nel Mezzogiorno), erano salite fino a sfiorare il milione e ottocentomila – il 6,9 per cento del totale. Queste famiglie includono cinque milioni di persone, il nove per cento della popolazione italiana.

Di fronte a dati tanto evidenti, il dibattito pubblico sul benessere sociale non può che concentrarsi solo sulla crescita del Pil e dei redditi ma deve spingersi a considerare i vari aspetti del benessere sociale.

Per farlo con maggiore precisione, a seguito di una modifica introdotta nella legge di bilancio 2016, è stato costituito un Comitato che include alti rappresentanti del ministero dell’Economia, dell’Istat e della Banca d’Italia, oltre a due esperti di comprovata reputazione scientifica, con l’obiettivo di proporre una selezione di indicatori di benessere equo e sostenibile (Bes) da considerare nei documenti ufficiali da presentare al parlamento. E così già dal 2018 il Def, Documento di economia e finanza, che il governo presenta nel mese di aprile di ogni anno prevede un documento aggiuntivo volto alla formulazione di obiettivi e al monitoraggio dei risultati in tema di benessere equo e sostenibile (il cosiddetto Bes). In conseguenza di questa piccola e silenziosa rivoluzione contabile, d’ora in avanti i governi italiani saranno impegnati a valutare i risultati attesi delle loro politiche non solo in termini delle variabili macroeconomiche tradizionali (Pil, consumi, investimenti, export, inflazione e disoccupazione) e sui conti pubblici ma anche su un nuovo insieme di dodici indicatori sociali. Si comincia con variabili più consuete come il reddito dopo l’intervento dello Stato (quindi al netto delle tasse ma inclusivo del valore dei servizi in natura forniti dalle istituzioni pubbliche e delle Ong), la frazione di persone in povertà assoluta e il rapporto fra il reddito totale ricevuto dal 20% della popolazione con il più alto reddito e quello ricevuto dal 20% della popolazione con il più basso reddito (cioè un indicatore di disuguaglianza). Ma il focus si estende anche a variabili meno usuali come la speranza di vita in buona salute alla nascita, la proporzione di persone adulte sovrappeso o obese o dei Neet (i maggiorenni che hanno smesso di studiare troppo presto e sono privi di qualifiche professionali). Per arrivare a indicatori di sicurezza personale, di accesso alla giustizia civile, l’emissione di CO2 e altri gas inquinanti e indici di abusivismo edilizio che finora non erano stati monitorati.

Era ora, vien da dire. Sempre che la grande pluralità di indicatori da misurare non finisca per produrre l’effetto indesiderato di dare un quadro confuso di ciò che accade, in tal modo offuscando – anziché chiarire - la percezione della capacità dell’economia di generare benessere economico lungo le dimensioni soggette a misurazione con i metodi tradizionali.

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