Indipendenza: perche' non si deve tornare indietro
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Indipendenza: perche' non si deve tornare indietro

SIAMO ALLA FINE DI UN CICLO? E PRESTO PER DIRLO, MA L'INTRECCIO TRA EVENTI MACROECONOMICI E NUOVI PARTITI SOVRANISTI POTREBBE PORTARE INDIETRO LE LANCETTE DELL'OROLOGIO E RENDERE LA POLITICA MONETARIA NON PIU' INDIPENDENTE

di Donato Masciandaro, ordinario presso il Dipartimento di economia

C’era una volta l’indipendenza della banca centrale… In futuro ci sarà ancora? L’evoluzione nelle vicende  macroeconomiche si sta intrecciando con un cambiamento della fisionomia dei partiti politici e un tale intreccio sta già provocando scosse importanti a quello che finora è stato un pilastro del disegno complessivo delle politiche economiche: la politica monetaria deve essere gestita da banche centrali indipendenti. In realtà le scosse che la politica può dare al pilastro dell’indipendenza non sono una novità, la vera incognita è quanto forti saranno.
La ragione è il cosiddetto ciclo politico dell’indipendenza delle banche centrali. Il punto di partenza è che sono gli stessi governi in carica che modificano le regole per rendere indipendenti le banche centrali. Quando e perché lo fanno? In generale il politico vorrebbe gestire in prima persona tutte le politiche economiche, inclusa quella monetaria. Anzi, la politica monetaria in particolare può essere una leva molto potente: stampando moneta si possono nell’immediato affrontare tutta una serie di squilibri macroeconomici: recessioni e stagnazioni, squilibri dei conti pubblici, salvataggi bancari.
C’è però un problema: proprio perché la politica monetaria è potenzialmente rapida ed efficace, il politico tende ad abusarne. L’abuso di politica monetaria, soprattutto quando viene percepito dall’economia e dai mercati, tende a creare bolle nei prezzi. I prezzi possono essere quelli dei beni di consumo, ed allora l’abuso monetario può generare esclusivamente inflazione. È questo ultimo tipo di abuso che negli anni Settanta contribuì a creare quel mix tossico di inflazione e recessione che convinse i politici – in tempi e modi diversi da paese a paese – ad affidare la politica monetaria appunto a banche centrali indipendenti dai governi in carica. L’indipendenza delle banche centrali divenne il requisito necessario – ancorché non sufficiente – perché la politica monetaria tornasse ad essere credibile, quindi efficace. L’indipendenza delle banche centrali – sono i dati a dirlo – ha dato un contributo decisivo non solo al ritorno alla stabilità monetaria, ma anche alla tutela della stabilità finanziaria, senza pregiudizio per la crescita economica.

Poi è arrivata la crisi del 2008, che ha aperto un periodo contrassegnato da squilibri incrociati: nelle variabili di crescita e occupazione, nella distribuzione del reddito, nella dinamica delle finanze pubbliche, nella stabilità di banche e finanza. L’inflazione – che aveva costretto i politici a rendere indipendenti le banche centrali - ha smesso di essere percepita come una priorità. In parallelo, è cresciuta nei cittadini la domanda di interventismo statale. L’offerta di interventismo è stata – ed è – spesso veicolata da movimenti sovranisti e populisti, che tendono a dare risposte immediate, a prescindere dalla loro resilienza temporale. Se i cittadini dimenticano i danni da abuso di politica monetaria, ed i politici vogliono tornare ad avere pieno controllo anche della politica monetaria, ecco che il ciclo della indipendenza delle banche centrali potrebbe avere una nuova svolta, questa volta a danno dell’autonomia della politica monetaria.
L’indipendenza della banca centrale è già stata messa in discussione in una serie di casi paese, a partire dal 2015 fino ad arrivare al 2018: Grecia, Venezuela, Turchia, Stati Uniti, India. È troppo presto per dire se le lancette dell’orologio dell’indipendenza torneranno indietro, ma almeno due sono le certezze: se è vero che non c’è alcuna ragione economica per tornare al passato, è altrettanto fuori di dubbio che gli ingranaggi dell’orologio sono mossi dall’analisi costi e benefici della politica, non certo da una non meglio specificata massimizzazione del benessere sociale, come l’analisi macroeconomica tradizionale voleva – vuole? – farci credere.
 

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