Ritorno alla Bocconi
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Ritorno alla Bocconi

IL NUOVO CONSIGLIERE DELEGATO RICCARDO TARANTO RIFLETTE SUL METODO BOCCONI, IL RESTITUIRE CIO' CHE SI E' RICEVUTO, GLI SPAGHETTI ALLA CARBONARA E L'IMPORTANZA DI DIRE LE COSE COME STANNO

Riccardo Taranto è un uomo elegante. È uno dei pochi che riesce ad abbinare un paio di calze verdi che esaltano le impercettibili tonalità della trama del tessuto dell’abito che indossa. Ma è soprattutto uno di quegli uomini che interpreta l’eleganza da un punto di vista etico, abbinando numeri e virtù, coraggio decisionale ed empatia. Riccardo Taranto, laureato in Bocconi nel 1981, è il neo nominato managing director del consiglio d’amministrazione dell’università milanese: il suo desiderio, in questo ruolo, è quello di restituire alla Bocconi una parte di ciò che ha ricevuto.
 
Che cosa ha ricevuto dalla Bocconi?
La Bocconi è stata una bella scuola di vita, ma anche un luogo di amicizie e divertimento. Ho ricevuto ottime competenze professionali, un bagaglio di valori e un codice etico simile al fair play sportivo.
 
Perché ha scelto la Bocconi?
Avevo fatto il liceo classico e non avendo una materia preferita ho guardato al futuro: molti bocconiani che conoscevo avevano intrapreso carriere d’eccellenza e ho pensato che quest’università potesse offrire delle ottime prospettive. Oggi, anche se il mondo del lavoro è più complicato, la Bocconi continua ad avere un’ottima capacità di placement.
 
Che cosa ricorda dei compagni?
Le partite di calcio. Memorabile è stata la trasferta a Cergy-Pontoise: avevamo saputo che l’Essec di Parigi aveva organizzato un torneo per le università di economia, non abbiamo perso l’occasione della trasferta.
 
E com’è andata?
Abbiamo vinto la prima partita, contro la Tunisia; poi, con il Barcellona abbiamo pareggiato e contro la squadra di Berlino abbiamo perso. Alla fine non ci siamo qualificati ma sono stati giorni molto divertenti che hanno cementato i rapporti di amicizia. In squadra c’era anche Alberto Grando che poi è diventato professore in Bocconi.  
 
Quali sono stati i suoi professori?
Carlo Scognamiglio, Enrico Valdani, Luigi Guatri, Alberto Martinelli. E ancora Franco Amigoni, Giorgio Brunetti, Elio Borgonovi, Vittorio Coda e Stefano Podestà, che è stato anche il mio relatore di tesi. Ho avuto dei maestri straordinari: oggi quando entro in Bocconi e salgo le scale che portano al mio ufficio provo una certa commozione nel vedere uno in fila all’altro i ritratti di alcuni mei docenti, fra cui Claudio Dematté e Carlo Masini e ancora Giorgio Pivato, Ariberto Mignoli, Aldo De Maddalena.
 
Qual è stato il primo corso che ha frequentato da studente?
Venendo dal classico non avevo una grandissima confidenza con la matematica e ho scelto di iniziare da sociologia, proprio con Martinelli, perché mi sembrava la strada più percorribile.
 
Nel mondo del lavoro si riconosce un bocconiano?
Sì perché trasmette quello che ha respirato durante l’università: l’impegno e l’intraprendenza nel raggiungere obiettivi concreti. Il mio primo lavoro è stato alla Honeywell Information System, lì ho incontrato Bruno Pavesi, bocconiano, che ricopriva il ruolo di cfo e poi è diventato ceo. Erano alumni Bocconi anche i capi di alcune aree dell’azienda: ho trovato un ecosistema famigliare in cui è stato molto semplice inserirsi.
 
Esiste un metodo Bocconi?
Io credo di sì. La storia di questa università si basa proprio su uno stile di vita, quello del suo fondatore: Ferdinando Bocconi era un grande imprenditore e aveva deciso di destinare risorse importanti per dare un  futuro concreto ai giovani. In Bocconi, infatti, si impara a contribuire ai risultati della comunità in cui si è inseriti. Ho sempre lavorato con questo spirito e nel mio nuovo ruolo non sarò da meno: anche questo fa parte di quel desiderio di restituzione.
 
Stiamo parlando di una collettività che supera l’individualità?
Esatto, è proprio così, facciamo tutti parte di qualcosa. In questi giorni ho girato per l’università e ho colto un grande spirito di condivisione che in alcuni casi è ancora più forte di quello che c’era ai miei tempi: in biblioteca ho visto molti gruppi di studio e il clima che si respira è entusiasmante. Sono rimasto positivamente colpito da quanto sia successo in poco più di trent’anni.
 
I leoni però sono sempre lì…
Sì, infatti. Mi sono fermato a osservare il viavai dell’ingresso e ancora oggi nessuno osa interrompere la tradizione. Alle volte, anche da laureati si tende a pensare che sia meglio non attraversarli. Io l’ho fatto una volta sola.
 
Nella sua vita ci sono cinque figli e quattro nipoti. Da una generazione all’altra, i valori sono cambiati?
Credo che cambino i comportamenti quotidiani, ma non i valori di fondo. Oggi, per esempio, in una famiglia si dà meno importanza al rigore a tavola ma si seguita a dare rilevanza all’affetto e al sostegno reciproco: l’unione fa la forza. Ai giovani bisogna continuare a trasmettere il valore dell’autonomia, insegnargli a riconoscere ciò che è vero, spronarli a gettare il cuore oltre l’ostacolo per avventurarsi in nuove sfide.
 
Ha parlato di fair play e di sfide. Questo tendere al miglioramento è ispirato dallo sport?
Assolutamente sì. Lo sport insegna il valore della sana competizione e per questo è un modello di vita. Ho giocato a tennis per tanti anni e sono un appassionato sciatore. Lo sci mi dà una certa soddisfazione perché è tecnica ed emozione: ancora oggi quando scendo dal muro di San Pietro della pista Stelvio di Bormio, che è considerata una delle più spettacolari della Coppa del mondo di sci, provo un certo brivido.
 
È tifoso?
Sono un grande tifoso del Milan e del calcio in generale. Ho avuto la fortuna di poter assistere dal vivo a tre vittorie importantissime: quelle del Milan in Champions League a Manchester nel 2003 e ad Atene nel 2007, quella dell’Italia a Berlino per i mondiali del 2006.
 
Con lo sport ha avuto a che fare anche per lavoro…
Come cfo e presidente di Rcs Sport ho contribuito all’organizzazione del Giro d’Italia. Credo che sia l’unica manifestazione in grado di unire veramente l’Italia e risvegliare un certo spirito di collaborazione fra le persone perché ogni località coinvolta dal Giro deve dare il proprio contributo. Ecco, questo evento è una bellissima metafora che dimostra quante cose si possano a fare quando ci sono condivisione e partecipazione.
 
L’Italia è un paese felice?
Non molto, se si leggono le statistiche. Secondo me, l’Italia è un bellissimo paese con una storia importante e delle tradizioni da preservare, ma non può chiudersi in se stessa. Essere italiani è un plus, ma essere solo italiani è un minus.
 
Quando era sui banchi dell’università intravedeva quello che sarebbe diventato?
No, pensavo al marketing, ma poi è andata diversamente e forse è stato meglio così. In ogni caso, durante la mia carriera ho sempre provato a proiettarmi nei cinque anni successivi per cercare di capire se l’azienda in cui mi trovavo mi permetteva di alzare l’asticella delle sfide. Il primo obiettivo è stato quello di diventare dirigente prima dei trent’anni e l’ho raggiunto: allora era un po’ più semplice di oggi. Il segreto è nel creare un giusto equilibrio fra aspirazioni e capacità reali.
 
Qual è stata la sua più grande sfida?
È sempre la prossima. Ogni sfida che ho affrontato mi è costata tanto e mi ha dato altrettanto.
 
Da bambino, chi era il suo eroe?
Gianni Rivera.
 
E quello attuale?
Oggi lo sport ha tanti campioni, ma i veri eroi sono quelle persone che tutti i giorni lavorano con grande serietà e impegno: chi cerca di dare il meglio anche di fronte alle difficoltà.
 
Ha un luogo del cuore?
Il mare perché ha un orizzonte lontano, ma raggiungibile.
 
Il suo piatto preferito?
È difficile individuarne uno solo. Scelgo quello che so anche preparare: gli spaghetti alla carbonara.
 
Il suo film e il suo libro?
Il film è sicuramente Amici Miei, un bel mix di amicizia e italianità spiritosa. Con gli amici ci divertivamo a simulare quelle gag: ci piaceva essere “zingari” come gli attori del film. Il mio libro preferito è, invece, Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar: è il racconto di un grande potere esercitato in maniera positiva.
 
Un sogno esaudito?
È stato quello di essere riuscito a intraprendere un bel percorso professionale ed essere riconosciuto come una persona seria e meritevole dei risultati raggiunti. La prova di questo è arrivata con le parole sincere dei moltissimi messaggi che ho ricevuto nei giorni della nomina in Bocconi.
 
Il sogno da esaudire?
Quello di fare il giro del mondo ed è legato a una mia grande passione: la fotografia. Probabilmente, se nella vita avessi potuto fare qualcosa di diverso sarei diventato fotografo.
 
Qual è il suo colore preferito?
Il verde, quello delle calze che indosso oggi. Questa tonalità mi ha sempre dato un senso di benessere perché richiama la natura.
 
Qual è la qualità che apprezza di più nelle persone?
La franchezza: stimo molto le persone che dicono le cose come stanno, anche quelle più difficili.
 
Bisogna sempre dire le cose come stanno?
Penso di sì. Possiamo rimandare il momento della verità ma a un certo punto è necessario esprimerla. Ciò che può fare la differenza è il modo in cui la si comunica.
 
In questo, c’è una componente di coraggio?
In un certo senso sì, quello di dire qualcosa di poco gradito, ma costruttivo. Si tratta di un’opportunità.
 
Qual è la sua migliore qualità?

La voglia e l’entusiasmo. Da mio padre ho imparato la determinazione e da mia madre la passione.
 
Uomini e donne, sono uguali?
No, sono meglio le donne! Devo dirlo altrimenti in famiglia passo dei guai: tra figli e nipoti, solo due sono maschi.
 
Esiste un valore della diversità?
Assolutamente sì, soprattutto oggi che la diversità è oggettiva e sempre presente, anche se alle volte non ci piace. Sul lavoro, per esempio, le donne sono fondamentali. Quelle talentuose devono essere valorizzate come si fa con gli uomini bravi. Non è una questione di genere, ma di persone perché siamo tutti individualmente diversi.
 
Ha un motto?

Mio nonno mi diceva spesso: “bisognerebbe trovarcisi, caro lei!”. Questa espressione mi ha sempre fatto sorridere e la condivido completamente, giudicare dall’esterno è tanto facile quanto poco edificante.
 


Laureato nel 1981 in Bocconi, in Economia delle aziende industriali, Riccardo Taranto ha lavorato negli ultimi cinque anni come Group cfo di Rcs Mediagroup, per cui ha ricoperto anche gli incarichi di presidente di Rcs Sport e consigliere di altre società del Gruppo. La sua carriera è iniziata in Honeywell Information System con incarichi nell’ambito della contabilità e pianificazione e controllo; in seguito ha svolto mansioni di controller in Motta-Alemagna, Roche, Pirelli Cavi e Sistemi, Cisco System e Telecom Italia, di cui è stato poi Chief Accounting Officer e infine Group Compliance Officer. Prima di entrare in Rcs, è stato cfo del Gruppo Prelios.

 

di Ilaria De Bartolomeis

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