I diritti in bianco e nero dei riders (e degli altri gig workers)
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I diritti in bianco e nero dei riders (e degli altri gig workers)

DIPENDENTI O AUTONOMI? IN MANCANZA DI UNA DEFINIZIONE EUROUNITARIA AUMENTANO I RICORSI DEI LAVORATORI, DALLA FRANCIA AL REGNO UNITO, PASSANDO PER IL BELGIO E L'ITALIA

di Stefano Liebman e Antonio Aloisi, rispettivamente professore ordinario e docente a contratto presso il Dipartimento di studi giuridici

Se le strade dei centri metropolitani sono invase da fattorini muniti di zaini fluorescenti, altrettanto affollato di interrogativi sulla regolamentazione della gig-economy è il dibattito sul futuro del lavoro. I dati rivelano una tendenza consolidata: la piattaformizzazione del lavoro, vale a dire la sostituzione di rapporti stabili con prestazioni commerciali istantanee, fragili, a chiamata, collocate fuori dal perimetro del diritto del lavoro. I rider di Foodora, insieme agli autisti di Uber, ai freelance di Fiverr e agli addetti alle manutenzioni di TaskRabbit, sono il simbolo estremo di un modello di organizzazione taskificata, fondato su robuste prerogative di comando e responsabilità datoriali liquide. Il mercato italiano conta su centinaia di migliaia di lavoratori contrattisti, mentre a Milano i soli fattorini sarebbero più di tremila.
La Commissione Europea, con la comunicazione 356 del 2016 e con le azioni nell’ambito del Pilastro dei diritti dociali, ha definito le priorità dell’agenda politica in tema di lavoro dignitoso e riduzione delle disuguaglianze.

A livello locale, la città di Bologna ha promosso una Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale, sottoscritta da Riders Union, Cgil, Cisl e Uil e dai vertici di una società locale di food delivery. Anche la Regione Lazio ha stilato una bozza di manifesto dei Diritti primari della gig-economy e si appresta a varare provvedimenti prima dell’estate, dopo una fase di consultazione. Più di recente, il neo ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico Di Maio ha inaugurato una serie di incontri informali con sigle convenzionali e spontanee di rappresentanti dei fattorini precari.
Nel frattempo, si assiste a una sequela di ricorsi, promossi con l’obiettivo di contestare la classificazione di autonomi per i lavori delle piattaforme. In assenza di una definizione eurounitaria di lavoratore e date le differenze tra ordinamenti nazionali, i risultati variano di molto. È così che i corrieri della logistica dell’ultimo miglio sono autonomi per la Corte d’Appello di Parigi e per la High Court del Regno Unito, sono invece subordinati stando al giudizio di una commissione amministrativa belga e del tribunale di Valencia. In questo quadro piuttosto confuso e provvisorio, lo scorso aprile il Tribunale di Torino ha rigettato il ricorso di sei fattorini di Foodora che sostenevano di essere lavoratori dipendenti della piattaforma, ingiustamente licenziati per aver promosso un’agitazione collettiva.

A una prima lettura, la tanto attesa pronuncia torinese non convince. Da un lato, appare acritica l’adesione al filone giurisprudenziale che valorizza, tra gli indici sintomatici del vincolo di subordinazione, la libertà di rendersi disponibili o meno a lavorare. Dall’altro, un’interpretazione ardita dell’art. 2 del decreto legislativo 81/2015 (collaborazioni organizzate dal committente) tradisce l’intenzione del legislatore, ma anche il dato testuale. Di fatto, la soluzione alla controversia sembra guidata da un riflesso condizionato, che, nella pur comprensibile ricerca di un precedente, quello dei pony express, protagonisti trent’anni fa di un’analoga controversia, rinuncia a indagare in profondità l’impatto della trasformazione digitale sui rapporti di lavoro atipici.
A ben vedere, infatti, le classiche prerogative datoriali (organizzazione, controllo e disciplina) hanno subito un’elevazione alla potenza digitale di cui non si è tenuto conto nel processo. Per alcuni gig-workers, specie quelli che operano nel settore delle consegne a domicilio, è difficile negare la sussistenza di un vincolo di eterodirezione nel corso della prestazione, o quantomeno di un’intensa attività di organizzazione rispetto ai tempi e ai luoghi della stessa da parte del committente.

Il giudice di Torino ha affrontato la vicenda con lo sguardo rivolto al passato. Un’occasione sprecata per mettere alla prova della platform-economy una previsione del Jobs Act che, senza troppi stravolgimenti, prometteva di estendere l’applicazione delle tutele del lavoro subordinato a un gruppo di lavoratori solo nominalmente indipendenti.
 
 

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