Sotto il segno delle grandi  migrazioni
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Sotto il segno delle grandi migrazioni

FENOMENO LEGATO AI CICLI DELLA GLOBALIZZAZIONE, SI ARRESTA TRAGICAMENTE QUANDO ALLA CULTURA DELL'APERTURA SI SOSTITUISCE QUELLA DEI NAZIONALISMI E DEI POPULISMI. UN FENOMENO CHE I RICERCATORI DELLA BOCCONI STUDIANO SEGUENDO ROTTE DIVERSE

di Andrea Colli, direttore del Dipartimento di Scienze politiche e sociali

Secondo le statistiche della Banca Mondiale, il numero di migranti (compresi 16-20 milioni di rifugiati) supera oggi i 240 milioni di persone, oltre il 3% della popolazione mondiale. Nel 1960, il numero era poco più di 70 milioni, e cresceva lentamente, arrivando a 100 milioni solo un quarto di secolo più tardi, nel 1985. Poi, un’accelerazione improvvisa: 152 milioni nel 1990, 190 milioni nel 2005, fino ai livelli attuali.
La migrazione è un ingrediente primario, oltre che una conseguenza, della globalizzazione, definita come libera circolazione delle merci e degli scambi, dei capitali, delle idee e, naturalmente, delle persone. Tutte le ondate di globalizzazione del passato sono state caratterizzate da un intenso flusso migratorio che ha attraversato il globo, beneficiando delle nuove tecnologie dei trasporti e delle comunicazioni. Una delle tragedie più iconiche dell’era moderna è il naufragio del Titanic, in una notte di nebbia a metà aprile 1912. Immaginario pop e cultura, tuttavia, non rendono piena giustizia all’evento. Il Titanic trasportava in prima classe viaggiatori ricchi, influenti e famosi, ma una gran parte degli oltre 2.200 passeggeri, la stragrande maggioranza di coloro che hanno perso la vita, erano viaggiatori di seconda e terza classe, per lo più migranti. La tragedia del Titanic è un simbolo toccante di questo mondo di viaggi e reti, interconnesso e globalizzato.
Al culmine della sua attività, tra il 1900 e il 1914, circa 5-10 mila persone al giorno passavano da Ellis Island, la porta dell’America per gli immigrati. Gli europei migravano ovunque, anche nelle regioni più remote del globo come l’Australia, la Nuova Zelanda, la Siberia. Anche gli asiatici si muovevano: una massiccia migrazione cinese, per esempio, investì il continente americano negli ultimi decenni dell'Ottocento. È quasi impossibile dire quanti migranti abbiano attraversato gli oceani e i continenti in un flusso umano senza precedenti. Secondo alcuni calcoli approssimativi, tra il 1840 e la prima guerra mondiale circa 30 milioni di persone migrarono dall’Europa agli Stati Uniti. Ma le migrazioni coinvolsero anche tutta l’Asia e l’Estremo Oriente, e naturalmente anche l’America centrale e meridionale. Secondo stime recenti, i migranti erano circa 120 milioni, più del 7% della popolazione mondiale dell’epoca (circa il doppio del livello attuale).

Queste diaspore, naturalmente, hanno rivoluzionato e sconvolto le società locali e i mercati del lavoro, sfociando spesso in aspri movimenti anti-immigrazione.
La rivoluzione nei trasporti e nelle comunicazioni della seconda metà del XIX secolo e la conseguente riduzione di spazio e tempo hanno fornito a una categoria molto diversa di viaggiatori altre opportunità e incentivi per spostarsi a prezzi sempre più bassi. Nel 1872 Thomas Cook, un imprenditore britannico che aveva fondato due decenni prima un’agenzia di viaggi, che vendeva regolarmente viaggi organizzati nell’Europa continentale (comprese le rinomate Alpi svizzere) e in Africa (dove organizzava crociere esotiche sul Nilo), offrì per la prima volta un pacchetto world tour di sette mesi a una specie di esseri umani che si stava rapidamente moltiplicando: i turisti. Il turismo era in fondo una forma di esplorazione. Vaste regioni del globo erano ancora sconosciute persino ai geografi, e le nuove tecnologie offrivano opportunità prima non disponibili: Amundsen completò con successo il passaggio a Nord-Ovest tra il 1903 e il 1906, viaggiando dalla Groenlandia all’Alaska in nave. Nel frattempo, l’Africa era un obiettivo prezioso per gli esploratori vittoriani come il leggendario David Livingstone, mentre i geografi viaggiavano in territori e deserti sconosciuti dell’Asia centrale, mappando fiumi e picchi dell’Himalaya, e tenendo sotto stretto controllo il comportamento molto simile degli agenti segreti dello zar, in un infinito «grande gioco».
Altre persone viaggiavano non per necessità, né per piacere, né per spionaggio: i viaggi potevano infatti dare accesso alla conoscenza, sotto varie forme, a una conoscenza che poteva quindi essere trasferita nel paese d’origine. I viaggi di apprendimento erano una pratica standard della classe alta europea già nel corso del diciottesimo secolo e in generale miravano a fornire o a rafforzare il livello di istruzione e di socializzazione di coloro che li intraprendevano.

Nel complesso, l’esperienza delle migrazioni di massa della prima globalizzazione ci comunica un messaggio rilevante. Oltre alle innovazioni nelle tecniche di trasporto e comunicazione, le migrazioni furono possibili grazie a un’altra condizione indispensabile di natura culturale: la propensione all’apertura, allo scambio e alla curiosità dello sconosciuto, comune a molti intellettuali, statisti, influencer dell’epoca.  Era l’idea di cittadinanza globale come tratto distintivo del mondo moderno, e una conseguenza naturale della crescente apertura globale e delle interconnessioni: in una parola, del cosmopolitismo. La globalizzazione è stata modellata in egual misura dalla tecnologia e dalla cultura dell’apertura. Quando il nazionalismo e la chiusura cominciarono a prevalere sull’apertura, l’intera architettura del mondo globale del XIX secolo andò in pezzi. Le migrazioni globali si sono concluse nella tragedia delle due guerre mondiali, durante le quali la gente ha cominciato a viaggiare, a volte per lunghe distanze, per uccidere o per morire, come tredicimila giovani australiani, indiani e neozelandesi a Gallipoli sui Dardanelli, o per cercare un luogo dove vivere, come dieci milioni di rifugiati sfollati ebrei, tedeschi, polacchi e italiani istriani espulsi dalle loro case dopo il 1945. Una lezione da (speriamo) ricordare.

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