La cura contro la corruzione negli ospedali
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La cura contro la corruzione negli ospedali

DAL WHISTLEBLOWING A UNA REVISIONE ORGANIZZATIVA DELLA FUNZIONE DI CHI NELLE ASL DEVE PREVENIRE L'ILLEGALITA'. ECCO CHE COSA EMERGE DA UNA SURVEY CONDOTTA DAL CERGAS

di Fabio Amatucci e Alberto Ricci, docente di public managemente and policy presso SDA Bocconi e ricercatore presso Cergas Bocconi

Spesso i media riportano stime sui costi della corruzione per il sistema sanitario del nostro paese. I più reputati studi internazionali (World Bank, 2014) valutano la corruzione intorno al 4-5% della spesa sanitaria pubblica, dunque attorno ai 5-6 miliardi. Resta il fatto che misurare il livello di corruzione nelle aziende sanitarie è molto difficile, ed è altrettanto difficile distinguere tra inefficienza, inappropriatezza, frodi e corruzione. Tutto questo porta, a volte, a numeri sensazionalistici che aumentano lo scoraggiamento sterile oppure la diffidenza nei confronti di Asl e ospedali. O ancora, potrebbe condurre a proposte semplicistiche, come la riduzione del 5% della spesa sanitaria, con la convinzione di eliminare automaticamente il 5% di corruzione. Tuttavia, senza comprendere le cause profonde di un fenomeno così complesso e dannoso e interventi mirati, i tagli lineari finiranno per diminuire solo la copertura del bisogno.
Alla luce di questo, nel Rapporto Oasi 2017del Cergas abbiamo affrontato l’argomento da una prospettiva diversa, per capire il punto di vista di chi, ogni giorno, si dedica alle attività di prevenzione dell’illegalità. Abbiamo così strutturato un questionario che è stato sottoposto ai responsabili anticorruzione (Rpc) di tutte le aziende sanitarie pubbliche italiane, figura istituita dalla Legge 190/2012. In totale, hanno risposto i responsabili anticorruzione di 83 aziende sanitarie, che rappresentano il 41% del totale delle aziende sanitarie pubbliche italiane (202).

L’85% dei rispondenti dichiara almeno 8 anni di permanenza in azienda ma specifica di ricoprire l’incarico di Rpc da meno di 4 anni. Dunque, in media, gli Rpc hanno l’anzianità di servizio necessaria per conoscere bene il contesto aziendale, ma la loro esperienza rispetto allo specifico incarico è ancora limitata.
Con l’attuale meccanismo, l’incarico di Rpc è aggiuntivo rispetto a quello già previsto in capo al dirigente. Questo sovrapporsi di incarichi può avere effetti negativi, sia sul piano del potenziale conflitto di interessi, sia della disponibilità di tempo. Solo il 23% dei responsabili dichiara di dedicare almeno il 50% del tempo alle attività anticorruzione. Inoltre, solo il 37% dei Rpc gode del supporto di uno staff. In maniera apparentemente paradossale, sono proprio gli Rpc dotati di uno staff apposito a dedicare la maggiore quota del proprio tempo alle attività anticorruzione. In realtà, la disponibilità di collaboratori permette di delegare le attività più strettamente formali, come l’aggiornamento dei corposi Piani anticorruzione aziendali, liberando così tempo impiegabile per svolgere le attività che gli stessi responsabili ritengono più efficaci: audit formalizzati, formazione, analisi di contesto.

Inoltre, tra le attività critiche, quasi tutti gli Rpc (78 su 82) hanno attivato degli strumenti ad hoc per il whistleblowing, vale a dire la raccolta di segnalazioni anonime di comportamenti illeciti. A ciò non sempre è seguito un alto numero di segnalazioni: solo il 42% dei rispondenti ha dichiarato di aver raccolto segnalazioni nell’ultimo anno; solo 8 Rpc (10%) hanno raccolto più di 5 segnalazioni, quindi con una media una ogni due mesi. L’utilità media dichiarata delle segnalazioni è peraltro solo di 3,5 su 7. Gli Rpc sanno che si tratta di uno strumento utile, ma che può anche prestarsi ad abusi.
In termini di prospettive di sviluppo della funzione, emergono con chiarezza alcune indicazioni. Innanzitutto, a livello organizzativo, è fondamentale il supporto della Direzione aziendale, la cui presenza permette ai Rpc di percepire maggiormente l’utilità del proprio lavoro. Peraltro, a oggi, il supporto percepito della Direzione diminuisce nei territori più critici in termini di illegalità diffusa, passando da 3,8/7 al nord a 3,1/7 al mezzogiorno.

Sul piano normativo, andrebbero invece rafforzati il ruolo e le attività del Rpct, sia conferendo a tale figura professionale delle funzioni inerenti l’audit e il controllo interno, sia alleggerendo l’attività di stesura di documenti aziendali e di relazioni interne, sia anche diminuendo le altre responsabilità operative e gestionali e affiancandogli uno staff dedicato. Infine, sarebbe prezioso sviluppare quelle esperienze embrionali ma promettenti di condivisione delle best practices e di sviluppo di un network professionale nazionale tra Rpc.

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