Non siamo un paese  per non autosufficienti
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Non siamo un paese per non autosufficienti

UN SISTEMA FRAMMENTATO E INIQUO CHE NON E' IN GRADO DI SUPPORTARE IL CRESCENTE NUMERO DI PERSONE CHE NECESSITANO DI LONG TERM CARE. EPPURE CI SAREBBERO TRE POSSIBILI VIE D'USCITA. BASTEREBBE IMBOCCARLE E DISEGNARE UNA NUOVA POLICY

di Francesco Longo, professore associato presso il Dipartimento di analisi delle politiche e management pubblico

Per fortuna l’Italia è uno dei paesi con la più alta speranza di vita al mondo, ma sfortunatamente siamo anche uno dei paesi con la più bassa natalità del pianeta (1,3 figli per donna, quando ce ne vorrebbero 2,1 solo per tenere la popolazione stabile). Questo quadro determina un’esplosione delle persone con bisogni di Ltc, long term care, e una riduzione dei familiari che possono garantirla.
In Italia vivono già 2,5 milioni di persone non autosufficienti, che diventeranno 3,5 nel 2030 e 5,1 nel 2050. Ognuno di essi coinvolge reti familiari di almeno quattro persone, ciò vuol dire che 10 milioni di italiani sono oggi profondamente coinvolti con il problema.
Il nostro sistema di welfare al momento si basa su quattro pilastri.
Primo. Circa il 60% delle persone non autosufficienti ricevono l’assegno di accompagnamento dall’Inps (circa 500 euro al mese), che viene erogato senza test dei mezzi. L’importo è insufficiente per le classi sociali più deboli e non così rilevante per le classi più agiate: il 60% degli assegni vengono catturati dal 50% delle famiglie più ricche.

Il secondo pilastro è dato dal Sistema sanitario nazionale che paga la retta sanitaria dei 200mila posti letto in struttura protetta, la quale copre il 40% del costo circa, lasciando alle famiglie il rimanente 60% della retta, che ha una media di mercato di 70 euro al giorno (2.100 euro mese). A ciò si aggiungono le cure domiciliari sanitarie, che hanno una intensità media di due ore la settimana.
Gli enti locali sono il terzo pilastro, che garantisce il pagamento delle rette alberghiere in strutture protette alle famiglie indigenti e un po’ di servizi di assistenza domiciliare gratuita agli indigenti, con una intensità media di tre ore la settima (approssimabili a zero per i bisogni di un non autosufficiente).
Il quarto e più significativo pilastro è il settore della cura informale, che occupa 800mila badanti circa, al 90% donne straniere con contratti di lavoro in grigio (ovvero le famiglie dichiarano 25 ore settimanali per garantire il rinnovo del permesso di soggiorno, quando in realtà ne lavorano 60). La badante costa circa il 50% della retta in struttura protetta a causa della compressione dei loro salari e diritti below the rules. Questo spiega la drastica riduzione della speranza di vita degli ospiti nelle strutture protette (scesa a 6-8 mesi dall’inizio della crisi del 2008) perché le famiglie ricoverano quando 2 badanti (punto di break even del costo) non sono più sufficienti per l’assistenza.
In buona sintesi, su 2,5 milioni di non autosufficienti, 800mila hanno la badante, 200mila sono ricoverati e 1,5 milioni si arrangiano da soli con i propri familiari. Questo sistema di protezione della Ltc ha tre gravi criticità. Primo, il sistema è estremamente frammentato tra Inps, Ssn, enti locali, erogatori, delegando interamente alle famiglie l’onere della ricomposizione. La seconda criticità è la frammentazione che rende il sistema profondamente iniquo, sia perché alloca risorse senza test dei mezzi, ma anche perché svantaggia le famiglie che hanno meno capacità ricompositive e di navigazione in questo arcipelogo di servizi, contributi e diritti. Infine, ed è la terza criticità, il sistema non è professionalizzato essendo basato al 90% su care giver informali, quindi garantendo standard di servizio improvvisati e casuali.

Che fare in questo quadro? Se qualcuno trovasse il coraggio di mettere in agenda il problema, vi sono tre strade possibili da percorrere. La prima è correggere le principali micro-distorsioni: inserire il test dei mezzi sull’assegno di accompagnamento e trasformarlo da cash in voucher di servizi; trasformare le modeste ore di cure domiciliari da prestazionali a supporto consulenziale a famiglie e badanti; differenziare l’offerta residenziale con servizi anche a bassa soglia. La seconda strada è lanciare una policy nazionale di Ltc, come hanno fatto la maggior parte dei paesi Eu, ricomponendo in un unico fondo gli attuali 32 miliardo di euro, magari incrementandolo con una tassa di scopo, allocandoli in modo unitario in funzione del bisogno e del reddito, offrendo servizi e non cash. Infine, il perdurare dell’afasia di policy pubblica per la Ltc potrebbe almeno essere mitigata, ed è questa la terza strada, promuovendo la nascita di un mercato di servizi professionali, con forti incentivi fiscali, basati su logiche di ricomposizione della domanda (vedi badante di condominio), supportate per esempio con l’incremento del valore dell’assegno di accompagnamento se speso direttamente in servizi accreditati, rinunciando al trasferimento cash alla famiglia.
Non attivare alcuna di queste policy ha dei costi altissimi. Da un lato sull’insieme delle politiche di welfare. Il bisogno di Ltc è così intenso e voluminoso che attualmente gli utenti invadono in modo non appropriato tutti gli altri pilastri del welfare, indebolendoli rispetto alla loro mission specifica. Per la non autosufficienza il Ssn spende 10-15 miliari all’anno, mentre gli enti locali consumano il 50% della spesa sociale, così come forte e crescente è l’impegno Inps.

Dall’altro lato, la situazione attuale, in peggioramento, rende la vita delle persone in Ltc e delle famiglie inagibile, iniqua e con un impatto negativo sulla fiducia nelle istituzioni e nella comunità.
 

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