Contatti
Persone Marco Ceresa

Aggiornarsi è la chiave di volta

, di Andrea Costa
Marco Ceresa (CEO di Randstad Italia e alumnus Bocconi) delinea i fattori che condizioneranno le professioni di domani, dalla crescente importanza dell'equilibrio tra lavoro e vita privata all'avvento dell'intelligenza artificiale. Una sfida per le persone, ma anche per le imprese

Tra tre anni, nel 2027 il 23% dei lavori cambierà. Secondo l'ultimo rapporto sul futuro dell'occupazione del World Economic Forum ci saranno infatti 69 milioni di nuovi posti di lavoro mentre 83 milioni verranno eliminati. "Ma il più grande cambiamento in atto è come oggi, in particolare i giovani, percepiscono il lavoro e la carriera", commenta Marco Ceresa, laureato in Economia aziendale in Bocconi nel 1986 e oggi Group CEO di Randstad Italia, da lui stesso avviata oltre 20 anni fa. Secondo la ricerca Workmonitor 2024 di Randstad, infatti, più che la carriera fine a sé stessa o uno stipendio sempre più alto, oggi quello che viene ricercato è un miglior equilibrio tra vita e lavoro. "Oggi il legame tra azienda e risorse umane è, diciamo pure, utilitaristico".

Che cosa sta cambiando?
Oggi nessuno si aspetta di lavorare nella stessa azienda tutta la vita, e le relazioni con l'azienda sono quindi fondate su considerazioni molto concrete. Il senso di appartenenza è ormai sempre più labile e non si accetta più di dedicare al lavoro uno spazio esorbitante. L'abbiamo visto nell'ultima edizione della ricerca Workmonitor che Randstad ha condotto in tutto il mondo: il 60% considera la vita privata più importante della professione, e nella scala delle priorità l'equilibrio tra lavoro e tempo per sé conta quanto lo stipendio e più di tutto il resto compresa la carriera. A questo distacco contribuisce anche la polarizzazione crescente degli stipendi tra chi guadagna sempre di più e tutti gli altri che fanno sempre più fatica a mantenere il proprio livello di vita.

Ci sono altre tendenze in atto?
Ce ne sono tante, ma io ne isolerei soprattutto tre. Innanzitutto, il mondo è sempre più permeabile: fino a qualche anno fa gli espatriati erano relativamente pochi e appartenevano a una élite, mentre oggi è sempre più normale andare a lavorare in altri Paesi perché le opportunità di lavoro sono sempre più pensate per un mercato del lavoro internazionale. In secondo luogo, le competenze utili cambiano talmente in fretta da richiedere uno sforzo continuo per non restare tagliati fuori.
Il terzo "megatrend" che vedo è una conseguenza del fatto che ci sono meno giovani (almeno nei Paesi ricchi) e questo ha cambiato profondamente il rapporto tra azienda e dipendente. Mi spiego meglio: chi è giovane adesso ha visto i propri genitori identificarsi molto con aziende che poi non hanno esitato a liberarsi di loro. Adesso che si sentono più forti perché meno numerosi, i giovani sono anche più diffidenti.

Come cambierà il lavoro con l'uso sempre più intensivo dell'intelligenza artificiale in azienda?
Mi ricollego a quello che dicevo prima sulla necessità di restare sempre al passo con i tempi, di investire continuamente su sé stessi per non restare emarginati. L'intelligenza artificiale è e sarà un grande aiuto per certe figure professionali, ma evidentemente ne farà sparire altre. Del resto è stato così a ogni grande svolta tecnologica. Le fasce più basse di lavoratori non saranno toccate pesantemente, secondo me. E quelle più elevate nemmeno, a patto appunto di continuare ad aggiornarsi. Il problema sarà nel mezzo, dove vedo in prospettiva i rischi maggiori. La polarizzazione di cui parlavo è anche questo.

Abbiamo parlato finora delle persone. Le aziende, invece, come stanno cambiando?
Anche le aziende tendono a uniformarsi a due modelli. Alcune cercano essenzialmente gli alti potenziali, a cui danno molto e chiedono se possibile ancora di più. Sono ambienti, è chiaro, molto competitivi in cui vige la regola "cresci o esci".
Ci sono poi aziende che cercano di instaurare un dialogo costante con le proprie risorse umane in modo da avere un quadro condiviso dei pregi e dei limiti di ciascuno cercando di evitare che si formino aspettative non realistiche ma dando a ciascuno la possibilità di raggiungere il suo massimo. Queste sono le aziende veramente inclusive, parola oggi molto di moda ma non sempre rispondente alla realtà.

L'inclusività è quindi la nuova sfida per le imprese?
Questa è certamente una delle sfide, ma noto anche una maggiore richiesta di integrità, a tutti i livelli. Anche su questo fronte occorre dire che a volte si fa solo cosmesi o si ripetono degli slogan senza convinzione, ma la tendenza è inequivocabile. Sarà forse perché le aziende si sentono più condizionate dal pubblico che in passato, ma questo alla fine non è molto importante. L'importante è che i comportamenti impropri o non etici non sono più tollerati, e questo vale sia che si parli degli alti dirigenti o dei comuni impiegati.