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De Biase: Morta l'ideologia si fa avanti la teoria

, di Fabio Todesco
Il direttore di Nova24 e alumno Bocconi racconta la sua idea di open innovation. Perche' cio' che conta non sono le macchine, ma la nascita di luoghi di creazione e contaminazione

Quando è uscita dall'ambito puramente accademico ed è entrata nel complesso sistema della comunicazione, l'open innovation ha rischiato di assumere i tratti dell'ideologia, sostenuta da un'efficace campagna promozionale che ne ha resi popolari i principi. Roba vecchia, necessaria forse a conquistare l'attenzione ma problematica per arrivare a risultati concreti. Oggi, questa fase è superata e possiamo parlare non più di un'ideologia ma di una teoria, che ha buone probabilità di lasciare il segno sul modo di fare innovazione, sostiene Luca De Biase, editor di innovazione a Il Sole 24 Ore, direttore dell'inserto Nova24, e alumno Bocconi.

L'open innovation non ha qualche debito con l'open source?

L'open source ha una lunga storia, che risale almeno all'inizio degli anni '80, mentre l'idea di open innovation è nata una quindicina di anni fa, soprattutto grazie al lavoro di Henry Chesbrough, di Berkeley. È diventata presto un approccio, un metodo e un sistema basato su specifiche infrastrutture di ricerca come i Fab Lab nati all'Mit grazie a Neil Gershenfeld e poi diffusi in tutto il mondo. A essere importante non è solo il principio di condivisione, ma appunto il metodo con cui si costruiscono relazioni tra persone con background diversi, nella convinzione che l'innovazione non sia il risultato di un lavoro individuale, ma il frutto di uno scambio e della contaminazione incrociata tra punti di vista.

Questa è anche una bella storia. Che ruolo ha avuto la comunicazione nello sviluppo dell'idea?

All'inizio si trattava di una storia condivisa solo nei circoli accademici. Con il movimento dei maker abbiamo assistito a una vera e propria campagna di comunicazione. Sembrava che la condivisione e la cosiddetta stampa 3D potessero cambiare il funzionamento dell'economia. Alla base c'era una costruzione ideologica, l'idea che si potesse ricreare nel mondo dell'artigianato e della produzione ciò che, con l'open source, era già accaduto nell'informatica. Ora si è capito che non è proprio così.

E, dunque, che cosa rimane?

Rimane l'attenzione per quel modo di fare, la consapevolezza che il cuore dell'open innovation non è la macchina, ma la produzione in luoghi nei quali si crea contaminazione: i Fab lab, i contamination lab, i centri di co-working in cui si possono fare incontri inaspettati. Si sono, poi, sviluppate interessanti politiche territoriali in molte parti d'Italia e provvedimenti a favore dei contamination lab nelle università.

Allora non è stata solo una campagna...

Quello è stato un periodo. A marcare la discontinuità c'è anche un cambiamento di linguaggio: oggi per esempio non si parla quasi più di stampa 3D, ma di produzione additiva, che è un concetto più ampio e tecnicamente più preciso. Conclusa la campagna, rimane l'idea che si debba fare una scommessa sulla creazione di condizioni che favoriscano l'open innovation, ma mentre allora l'idea si basava su un'ideologia, oggi si basa su una teoria. E la teoria ha il grande vantaggio di poter essere testata e adattata in base alle prove raccolte.

E per il futuro?

Le teorie contrapposte sono quella per cui si deve consentire la contaminazione tra generatori di innovazione perché ne derivano più innovazione e un'innovazione più efficace e quella opposta, per cui non si devono cedere i segreti e la titolarità dell'innovazione per non rinunciare a un maggiore profitto. Ci sarà sempre pendolarità tra le due posizioni, ma in questo momento è l'idea di apertura che avanza.

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