OPINIONI |

Le quote fanno bene alla politica (e ai politici)

UN PAPER SULLE ELEZIONI LOCALI DIMOSTRA CHE AUMENTANDO IL NUMERO DEI CANDIDATI FEMMINILI SALE LA QUALITÀ DEGLI ELETTI

di Alessandra Casarico e Paola Profeta, professori associati presso il Dipartimento di analisi delle politiche e management pubblico della Bocconi

L’adozione di quote di rappresentanza di genere suscita sempre un ampio dibattito sia quando si tratta di promuovere la presenza femminile nelle posizioni rilevanti dell’economia, sia quando si parla della politica. Da un lato si sottolinea la necessità di misure d’urto per rimuovere le disparità di genere che caratterizzano il mercato del lavoro, le carriere e la politica, dall’altro si temono risultati antimeritocratici e un peggioramento della qualità media dei rappresentanti. In altri termini, dovendo inserire donne ai vertici dell’economia e della politica per rispondere a un vincolo di legge, non necessariamente si troveranno (o cercheranno) donne competenti e qualificate, con il risultato che la qualità media dei rappresentanti potrebbe diminuire.

Quest’ultima argomentazione è molto diffusa in Italia ed è riemersa nel dibattito che ha accompagnato l’adozione della legge 120 del 2011 che impone alle società quotate una percentuale minima del genere meno rappresentato nei cda e nei collegi sindacali. Oltre ad apparire singolare in un paese in cui le donne sono ormai più istruite degli uomini e i talenti femminili abbondano (e sono anzi largamente sprecati), questa argomentazione non convince. Perché? Perché non è mai stata provata empiricamente, forse per la difficoltà di identificare in modo appropriato in specifici contesti gli effetti dell’adozione di quote di rappresentanza di genere sulla qualità dei rappresentanti.
 
Nel paper Gender quotas and the quality of politicians scritto con Audinga Baltrunaite e Piera Bello ci proponiamo di stimare l’impatto dell’introduzione di quote di rappresentanza di genere sulla qualità dei politici locali italiani. Utilizziamo un esperimento naturale rappresentato dalla legge 81 del 1993, secondo la quale nessun genere poteva rappresentare più dei 2/3 dei candidati totali nelle liste elettorali comunali. La legge fu abolita inaspettatamente nel 1995 perché dichiarata incostituzionale. Poiché le elezioni avvengono ogni 5 anni, non tutti i comuni votarono nel periodo 1993-1995 in cui la legge era in vigore.
 
Questo ci permette di identificare due gruppi: il gruppo di trattamento rappresentato dai comuni che hanno votato secondo tale legge, e il gruppo di controllo che include gli altri. Possiamo quindi utilizzare una metodologia ‘difference in difference’ per stimare la differenza della qualità media dei politici locali eletti nei due gruppi di comuni. Seguendo precedenti studi nella scienza della politica, misuriamo la qualità con gli anni di istruzione. I risultati dell’analisi mostrano che la presenza delle quote si è accompagnata a un aumento della qualità media (istruzione) dei politici eletti, non solo perché tra gli eletti sono aumentate le donne, che mediamente sono più istruite degli uomini, ma anche perché sono diminuiti gli uomini con basso livello di istruzione. In altri termini la presenza di donne tra i candidati ha portato a un aumento del numero di donne elette, che hanno sostituito gli uomini meno istruiti.
 
Il nostro lavoro si focalizza su un contesto specifico, quello dei politici locali. Il messaggio però ha una portata molto più ampia: non è detto che l’introduzione di quote di genere peggiori la qualità dei rappresentanti. Anzi, nel caso analizzato ha portato a un suo miglioramento. In Italia, paese dominato da una potente gerontocrazia maschile, l’adozione di quote di genere potrebbe rappresentare un rinnovamento benefico.

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