OPINIONI |

La democrazia come risposta

BUONGOVERNO. MEGLIO IL GOVERNO DEGLI UOMINI O DELLE LEGGI? UN DIBATTITO MILLENARIO

di Piergaetano Marchetti, professore a contratto senior alla Bocconi

Il “buongoverno” un tema banale e ovvio a prima vista, ma altissimo. Un tema che nelle più varie declinazioni ha affascinato il pensiero e non solo occidentale da più di due millenni. Il “buon governo” – è stato scritto – è un mito, una grande narrazione che da Licurgo sino alla riproposizione della governance, della good governance non ha mai smesso di rappresentare il problema dell’uomo e del vivere collettivo nelle sue varie sfaccettature. Il buongoverno dell’impresa oggi ripropone l’interrogativo pure più che bimillenario del governo delle leggi o governo degli uomini.

Dibattito più che bimillenario. Rileggiamo Platone e Aristotele e scopriamo l’enorme attualità, la bruciante attualità di allora.
È povero e infecondo il Paese senza memoria. È arido e col fiato corto lo studioso senza consapevolezza della storia e del pensiero da cui viene.
Credo che al fondo di tante riflessioni sulla governance, alle aspettative, alle delusioni, alle mistificazioni, alla retorica, a volte, il giurista legga il dilemma: governo delle leggi e governo degli uomini. Già, il giurista. Ma quale è il suo ruolo? Credo che prima ci si debba chiedere chi è il giurista? È possibile trovare un minimo comun denominatore tra il giurista ricercatore (qualcuno lo dubita, ma credo che anche il giurista possa appartenere al mondo della scienza senza cambiar pelle), il giurista professionista, il giurista giudice, il giurista d’impresa, il giurista consigliere del principe, il giurista di istituzioni?
 
Credo di sì. Credo che due compiti gli spettino. Il primo, banale, ricordare che le norme, le regole sono una variabile da prendere in considerazione ex ante nella condotta, nelle scelte, nella programmazione, non un dato con qui confrontarsi a cose fatte ex post. Il secondo, quello di interpretare la norma, adattarla al caso concreto, individuare che cosa sta sotto la regola, l’assetto di interessi, coordinarla con il sistema, vedere cosa l’applicazione o la violazione muove nel delicato equilibrio di un sistema. È evidente che in questo lavoro il costo della violazione, la sanzione, rivestirà un’importanza fondamentale.
Se volessimo riprendere il filo del buon governo, potremmo dire che al giurista spetta rammentare le istanze del governo delle leggi al troppo dilatato spazio che il governo degli uomini spesso si arroga.
 
E vorrei subito togliere di mezzo un equivoco. L’equivoco che legge sia antitesi di libertà, che legge sia mortificazione dell’iniziativa. Non c’è bisogno di scomodare un esercito di classici da John Stuart Mill a Isaiah Berlin per ricordare come proprio la legge possa essere garanzia di libertà. Garanzia di concordia e convivenza. Ambrogio Lorenzetti nel suo celebre affresco nel Palazzo di Siena pone al sommo della sua allegoria del buongoverno la giustizia, l’applicazione della legge. Se dovessi continuare nell’allegoria direi che il pregiudizio spesso non infondato sul male delle troppe e vane leggi è il frutto del malgoverno, di un eccessivo peso di un cattivo governo di uomini, di uomini che nella politica non coniugano, come Max Weber vorrebbe, passione, lungimiranza, responsabilità.
 
Se volessi tentare un difficile e certo discutibile raccordo tra polis e impresa, direi che l’impresa negli ultimi anni ha dato troppo spazio al governo degli uomini, al capo-azienda, alla retorica dell’efficienza manageriale, con un’eclisse del governo della legge, delle norme, delle regole. E ciò in parallelo, ma le mie sono osservazioni grezze, con un mercato che troppo spesso ha rotto l’equilibrio tra libertà e regole del gioco. Il problema dell’esaltazione sproporzionata degli incentivi ai manager assume valore emblematico dello squilibrio verso un’esasperata concezione del governo degli uomini ed insieme, come è pacificamente riconosciuto, una grave incrinatura del sistema del funzionamento e del ruolo del mercato. Qui il governo delle leggi, come assoggettamento ex ante della condotta a regole generali, verificabili, conoscibili, avrebbe potuto far molto ed ora cerca di guadagnare terreno.    
 
Certo, il problema del governo delle leggi è che le leggi funzionino; è il problema della loro effettività. È un problema enorme, in parte interno e in parte esterno alle regole. È un problema di incentivi e disincentivi, anzitutto; e qui possiamo essere ancora all’interno della norma. C’è una parte dell’enforcement che è norma stessa, non è un dopo. Ma c’è poi il problema dell’applicazione per il caso che la barriera preventiva dell’incentivo e del disincentivo non abbia funzionato. Qui siamo di fronte a un problema di struttura più ampio; qui si innesta il discorso sul sistema della giustizia per l’impresa. Siamo sicuri che dopo settant’anni non si debba tornare a un sistema di giustizia dell’impresa e verso l’impresa?
 
I problemi che il nostro tema suscita sono enormi e nulla è peggio che il teorico generale dilettante: e allora spaventato arretro.
Non senza evocare un altro problema cruciale. Governo delle leggi, dicevo, più governo delle leggi nell’impresa. Sorge naturale la domanda. Ma quali sono le leggi giuste, chi è il filosofo “saggio” delle leggi di Platone? È anche questo un interrogativo che ha millenni sulle spalle. Sgombro il campo e dico subito che non è il giurista. E dico subito che non è neppure né l’economista, né il filosofo, né lo scienziato politico, pur raffinati e convincenti che possano essere i loro modelli. Il legislatore che garantisce il buon governo, il buon governo delle leggi che tempera il governo degli uomini, dico con Norberto Bobbio, è il sistema democratico, è la politica fondata, a sua volta, su quel delicato equilibrio di regole che (pur nella grande varietà che può assumere) sintetizziamo con il termine di democrazia. Un equilibrio, quello della democrazia, insieme forte e fragile che ha bisogno continuo di cura e dedizione.
 
Nel gioco democratico che dà vita al governo delle leggi non esistono formule magiche, verità inconfutabili, neppure per disegnare il modello perfetto di governo dell’impresa. Regole, e per nulla disprezzabili, ne abbiamo, occorre interpretarle e applicarle. A volte sono regole banali, si pensi, ad esempio, a un’effettiva dialettica tra organi collegiali e executives, così come ai conflitti di interesse. E si faccia ancora l’esempio del parametro della “corretta amministrazione” cui il nostro codice chiede agli amministratori di ispirarsi, parametro che non è affatto detto che in un quadro costituzionale come il nostro non debba lasciare più robusto spazio alla responsabilità sociale, alla considerazione di più vaste platee di stakeholders. Mi verrebbe da dire che esiste una banalità del buongoverno tutta da scoprire, da applicare con un lavoro di riflessione e irrobustimento etico e culturale delle nostre classi dirigenti.
 
Fra questo lavoro c’è quello indubbiamente di una promozione del merito, merito che per me significa strada sbarrata alla prevalenza del demerito. Ma premiare il merito non significa dividere il mondo in salvati e dannati. Merito significa premiare in proporzione corretta tutti coloro che danno tutto quanto possono dare anche se non sono i primi a tagliare il traguardo. Il merito poi non può seppellire l’eguaglianza dei punti di partenza, dei diritti, della dignità. Se fossi francese non proporrei l’abolizione dell’art. 2 della loro Costituzione, laddove afferma che il motto della repubblica è “liberté, egalité, fraternité”. Ma ciò che dobbiamo anzitutto noi giuristi e docenti perseguire è quello che chiamerei un positivo scetticismo costruttivo. Contribuiamo al “governo delle leggi” ma senza arroganza e vanagloria, non a caso raffigurate da Ambrogio Lorenzetti, come simboli del malgoverno.
“La nostra divisa è una sola: noi non conosciamo, ma cerchiamo la verità, noi non siamo mai sicuri di possederla e torneremo ogni giorno a ricercarla, sempre insoddisfatti e sempre curiosi”, così scriveva Luigi Einaudi.
 
E mi piace aggiungere e concludere con Voltaire che l’onore dei giudici, e aggiungo dei giuristi, come quello degli altri uomini, consiste nel riconoscere e riparare i propri errori.

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