OPINIONI |

Le borse hanno paura dei disastri, anche poco probabili

UNA CENTRALE NUCLEARE COSTA DAI CINQUE AI DIECI MILIARDI DI EURO E I MERCATI HANNO DIFFICOLTÀ A FINANZIARLA SENZA GARANZIE STATALI

di Nicola Misani, ricercatore di economia e gestione delle imprese alla Bocconi

Secondo i dati raccolti da Swiss Re, negli ultimi dieci anni il numero di catastrofi naturali o di origine umana è stato oltre il doppio di quello degli anni Ottanta. Un aumento ancora maggiore si è verificato per i danni economici a carico di persone e organizzazioni.

Questa tendenza sembra irreversibile, a causa di alcuni fenomeni. Intanto, i mutamenti del clima dovuti al riscaldamento globale, che sembrano influire sulla frequenza e l’intensità degli uragani e di altri disastri meteorologici. E poi la crescita della popolazione mondiale, con un conseguente incremento della densità demografica in aree esposte a eventi catastrofici, e l’incremento del valore complessivo delle unità a rischio, in particolare della proprietà immobiliare privata e commerciale, come conseguenza dell’aumento del reddito pro-capite e delle attività industriali e di servizi. L’incidente della centrale nucleare di Fukushima suggerisce che anche certe tecnologie intrinsecamente pericolose possono registrare nel tempo un aumento degli incidenti, in conseguenza dell’allargamento della base installata e dell’invecchiamento degli impianti.
 
Ciò che contraddistingue un rischio catastrofale è il combinarsi di un’elevata severità delle perdite potenziali e di una bassissima probabilità di accadimento. La ricerca psicologica ha rivelato che gli esseri umani faticano ad adottare atteggiamenti razionali verso questo tipo di eventi. Per esempio, uno studio di qualche anno fa mostrava che i residenti dei paesi che si trovano a valle di una diga sono certi che il crollo sia impossibile; si fidano delle rassicurazioni dei tecnici e attribuiscono i crolli del passato a errori irripetibili. Tuttavia, le persone cancellano dalla mente solo i pericoli esistenti, cui sono già esposti e che non potrebbero evitare. Al contrario, i rischi catastrofali nuovi ed evitabili suscitano fortissimi rifiuti emotivi, come se l’eventualità di un incidente fosse certa.
 
I rischi catastrofali sono difficili da trattare anche sul piano scientifico. La probabilità di accadimento dovrebbe dipendere dalla frequenza con cui l’evento si è verificato in un arco di tempo abbastanza lungo. Nel caso di catastrofi, l’evento può però essere così raro da determinare un’assenza o una povertà di dati storici. Le stime di probabilità devono quindi essere ricavate per via ingegneristica, con tutti i limiti della capacità umana di calcolare situazioni imprevedibili. È qui inevitabile un parallelo fra l’incidente di Fukushima e la crisi bancaria del 2008, in quanto in entrambi i casi gli esperti ci avevano rassicurato che la catastrofe era impossibile.
 
Per definizione, i rischi catastrofali possono compromettere la sopravvivenza stessa di un’impresa. Per la loro dimensione, risulta inoltre difficile trasferirli ai mercati assicurativi o finanziari. Per citare di nuovo il caso del nucleare, è noto che il solo costo di costruzione di un reattore nucleare può essere così grande (dai 5 ai 10 miliardi di euro) da essere paragonabile al valore di borsa dell’impresa che vuole realizzarlo. Di conseguenza, le borse considerano i reattori nucleari un rischio eccessivo che rifiutano di finanziare; quando interviene lo stato, comunque può chiedere alle imprese costi troppo alti. Nello scorso ottobre l’azienda elettrica americana Constellation Energy ha rinunciato a costruire un nuovo impianto nucleare nel Maryland dopo che il governo aveva chiesto una fee di 880 milioni di dollari per garantire un finanziamento di 7,6 miliardi di dollari (per un costo percentuale di 11,6%). Questo costo non considera tutti gli oneri di risarcimento che potenzialmente ricadrebbero su un’impresa in caso di incidente nucleare con danni alle persone o a terze organizzazioni.
 
È pertanto difficile che rischi catastrofali di queste dimensioni possano essere gestiti dai privati, anche se le forme di collaborazione (finanziaria e tecnica) con il settore pubblico sono ancora in gran parte da definire.

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