OPINIONI |

L'immigrato non ruba lavoro

UNO STUDIO SUGLI STATI UNITI TRA IL 2000 E IL 2007 MOSTRA EFFETTI CONTROINTUITIVI

di Gianmarco Ottaviano, ordinario di economia politica alla Bocconi

Delocalizzazione e immigrazione sono spesso ritenute responsabili della distruzione di posti di lavoro nei settori manifatturieri in Italia. Tuttavia, mentre la contrazione di questi settori negli ultimi decenni è innegabile, valutare la responsabilità della globalizzazione è difficile. Da un lato, la delocalizzazione dei processi produttivi o l’impiego di immigrati per svolgerli riduce direttamente il numero di posti disponibili per i lavoratori italiani. Dall’altro, la riduzione di costi associata a queste forme di riorganizzazione promuove la competitività delle imprese, che a loro volta possono generare nuovi posti di lavoro anche per i lavoratori italiani. L’effetto netto dipende da svariati fattori, anche istituzionali, tra cui non solo la flessibilità del mercato del lavoro e del prodotto, ma anche la capacità di reinventare l’organizzazione e la divisione dei compiti all’interno dell’impresa.

Per meglio capire come gestire efficacemente queste sfide e opportunità sarebbero di straordinaria importanza analisi empiriche comparate a livello internazionale in grado di evidenziare i punti di forza e di debolezza dei vari sistemi paese. In attesa di tali analisi, per ora indisponibili, lo stato del dibattito può essere esemplificato da un recente studio effettuato negli Stati Uniti su 58 settori manifatturieri dal 2000 al 2007 (Ottaviano, Peri, Wright, Immigration, offshoring and American jobs, National Bureau of Economic Research, working paper No. 16439, Cambridge, Mass., 2010).
Lo studio tiene dovuto conto di un fatto noto ma spesso dimenticato, e cioè che, come gli altri paesi occidentali, anche gli Stati Uniti hanno conosciuto nelle ultime decadi un calo strutturale dell’occupazione manifatturiera, dovuto alla transizione da un’economia industriale a un’economia di servizi, che quindi poco ha a che fare con la globalizzazione di per sé. In quest’ottica, la domanda giusta da porsi è se i settori manifatturieri più esposti a delocalizzazione o immigrazione abbiano perso più o meno posti di lavoro per americani rispetto agli altri settori.
 
Secondo lo studio, la delocalizzazione ha ridotto la quota di posti di lavoro per americani e immigrati, mentre l’immigrazione ha sì intaccato la quota di posti di lavoro delocalizzati, ma senza avere effetti significativi sulla quota di posti di lavoro per americani. In termini di mansioni svolte, la delocalizzazione ha spinto i lavoratori americani verso mansioni in media più complesse e meno routinarie e gli immigrati verso mansioni meno complesse e più routinarie. Al contrario, l’immigrazione non sembra aver avuto effetti rilevanti sul tipo di mansioni svolte dai lavoratori americani. Guardando, tuttavia, ai livelli di occupazione, invece che alle quote, la delocalizzazione non ha avuto alcun effetto rilevante sul numero di posti di lavoro per americani mentre l’immigrazione sembra aver avuto su di essi un piccolo impatto positivo. Questo testimonia l’effettiva esistenza di un effetto positivo della delocalizzazione e dell’immigrazione sulla competitività delle imprese, manifestatosi in un’espansione relativa dell’occupazione di lavoratori americani nei settori più esposti a tali fenomeni.
 
Nel loro insieme questi risultati indicano che, specializzandosi nelle mansioni meno complesse, gli immigrati hanno ridotto la gamma di mansioni delocalizzate senza influenzare granché il livello di occupazione e il tipo di mansioni dei lavoratori americani. I lavoratori all’estero, invece, hanno sottratto mansioni di complessità intermedia ai lavoratori americani, spingendoli verso mansioni più complesse e meno routinarie. Ciononostante, l’effetto positivo della delocalizzazione sulla competitività e la capacità di espansione delle imprese ha più che indirettamente neutralizzato qualunque effetto negativo sul livello complessivo di occupazione dei lavoratori americani.
Questo è quanto è successo negli Stati Uniti dal 2000 al 2007. Se sia accaduto o possa accadere anche in economie meno flessibili (dentro l’impresa e fuori da essa) come quelle dell’Italia e di altri paesi dell’Europa continentale, è ad oggi una questione aperta.

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